Si esordisce ricostruendo brevemente, anzitutto, la storia e l’aria semantica del termine 'makariòtes' (De Heer, Natoli): l’epiteto 'màkares', riferito agli dèi omerici, non pare significativo quanto altri a definirne lo status divino e nondimeno costituisce un problema la stessa instabilità del termine, divaricata fra l’indicazione di una vita che scorre piacevole, facilmente ('rheia zontes'), e l’esenzione di questi dèi dalla sofferenza e dal bisogno che li distingue dagli uomini. Il prefisso 'mak'- a sua volta pare alludere a qualcosa di ‘grande’ ('megas'), che, come tale, gode di un’illimitata espansione di sé. Quella degli dèi omerici, così effettivamente declinata, è però soprattutto una beatitudine secondo il corpo, che viene presto superata con la crisi dell’antropomorfismo teologico. In Esiodo la felicità cambia di segno, divenendo una questione umana e – fragile, ambigua, contraddittoria – si lega per la prima volta al merito di chi sappia obbedire alle norme emanate da Zeus, qualificandosi come esposizione il più possibile ridotta all’evento perturbatore proveniente dall’esterno (è felice chi non sia esposto al pàthos, al pàschein). Tale tratto in particolare è ascritto alla divinità sia in Senofane (frr. 24, 25, 26), sia nella tragedia (AESCH. Supp. 100; EUR. Er. 1345), e ancora – problematicamente- allo Sfero di Empedocle (frr. 27, 28): esso è ripreso anche dal Socrate senofonteo (Mem. I 5, 10), ma emerge anche il problema se la felicità sia solo assenza del bisogno o implichi anche una qualche attività. Così in effetti Platone lo pone nel Filebo (33b7-8), esentando il dio da ogni sofferenza e bisogno e però negando che un tale stato esistenziale appartenga all’uomo. Esso può essere al più la mèta finale di un duro cammino di restrizione nel desiderio, posizione di cui è esemplare il pensiero di Antistene. Ad essa si oppone però con forza, nel Gorgia (492c-e), Callicle, che daccapo riprende anche per l’uomo la felicità illimitatamente espansiva secondo il corpo ascritta agli dèi omerici. La sfida di una piacevolezza esistenziale che limiti sì desiderio e bisogno e che però non condanni, per dirla con Callicle, a “vivere come i sassi e i morti”, viene raccolta dalla grande filosofia classica: l’uomo, per esser felice, dev’essere attivo, delle competenze e capacità naturali che, come uomo, gli spettano. Ma anche la divinità, prima e più di lui, è beata in quanto attiva secondo i tratti propri della sua stessa natura. Gli dèi ammessi da Platone nelle Leggi curano le cose umane, grandi e piccole, e sono, perciò, “buoni d’ogni virtù” (Leg. 900e8-d3) e il problema dell’attività divina è posto anche da Aristotele (Eth. Nic. 1178b 8-9), poiché comunque a suo parere non si dà felicità in assenza della funzione naturale propria e della connessa attività . Nel Timeo (34b5-8) Platone allude al dio del primo cielo, ruotante in cerchio, unico e solitario, autosufficiente e non bisognoso di nulla, conoscitore e amatore di se stesso: esso è stato ‘creato’ dal Demiurgo, ma le ragioni elencate paiono in effetti qualificarlo – problematicamente - come “dio felice” (34b8-9, eudàimon, non màkar). Meno complesso è cogliere i tratti della beatitudine del Dio aristotelico, che proprio nell’esercizio dell’attività di pensiero vive una vita perfettamente eccellente e piacevole (Metaph. 1072b 12-30), secondo le ragioni esplicitate anche nell’Etica Nicomachea (1154b 24-28, 1178b 22-27): “la felicità non solo è connessa, come già la tradizione aveva preteso, per ogni essere e dunque anche per Dio, a un’attività, ma esplicitamente alla piacevolezza che, del pari per ogni essere, non può non conseguire all’esercizio non ostacolato della disposizione naturale: in ciò consiste, propriamente, l’attività e l’esercizio di tale attività è piacevole, requisito reputato ora a sua volta indispensabile della felicità”.
'Makariotes': riflessioni in margine alla beatitudine divina
NAPOLITANO, Linda
2005-01-01
Abstract
Si esordisce ricostruendo brevemente, anzitutto, la storia e l’aria semantica del termine 'makariòtes' (De Heer, Natoli): l’epiteto 'màkares', riferito agli dèi omerici, non pare significativo quanto altri a definirne lo status divino e nondimeno costituisce un problema la stessa instabilità del termine, divaricata fra l’indicazione di una vita che scorre piacevole, facilmente ('rheia zontes'), e l’esenzione di questi dèi dalla sofferenza e dal bisogno che li distingue dagli uomini. Il prefisso 'mak'- a sua volta pare alludere a qualcosa di ‘grande’ ('megas'), che, come tale, gode di un’illimitata espansione di sé. Quella degli dèi omerici, così effettivamente declinata, è però soprattutto una beatitudine secondo il corpo, che viene presto superata con la crisi dell’antropomorfismo teologico. In Esiodo la felicità cambia di segno, divenendo una questione umana e – fragile, ambigua, contraddittoria – si lega per la prima volta al merito di chi sappia obbedire alle norme emanate da Zeus, qualificandosi come esposizione il più possibile ridotta all’evento perturbatore proveniente dall’esterno (è felice chi non sia esposto al pàthos, al pàschein). Tale tratto in particolare è ascritto alla divinità sia in Senofane (frr. 24, 25, 26), sia nella tragedia (AESCH. Supp. 100; EUR. Er. 1345), e ancora – problematicamente- allo Sfero di Empedocle (frr. 27, 28): esso è ripreso anche dal Socrate senofonteo (Mem. I 5, 10), ma emerge anche il problema se la felicità sia solo assenza del bisogno o implichi anche una qualche attività. Così in effetti Platone lo pone nel Filebo (33b7-8), esentando il dio da ogni sofferenza e bisogno e però negando che un tale stato esistenziale appartenga all’uomo. Esso può essere al più la mèta finale di un duro cammino di restrizione nel desiderio, posizione di cui è esemplare il pensiero di Antistene. Ad essa si oppone però con forza, nel Gorgia (492c-e), Callicle, che daccapo riprende anche per l’uomo la felicità illimitatamente espansiva secondo il corpo ascritta agli dèi omerici. La sfida di una piacevolezza esistenziale che limiti sì desiderio e bisogno e che però non condanni, per dirla con Callicle, a “vivere come i sassi e i morti”, viene raccolta dalla grande filosofia classica: l’uomo, per esser felice, dev’essere attivo, delle competenze e capacità naturali che, come uomo, gli spettano. Ma anche la divinità, prima e più di lui, è beata in quanto attiva secondo i tratti propri della sua stessa natura. Gli dèi ammessi da Platone nelle Leggi curano le cose umane, grandi e piccole, e sono, perciò, “buoni d’ogni virtù” (Leg. 900e8-d3) e il problema dell’attività divina è posto anche da Aristotele (Eth. Nic. 1178b 8-9), poiché comunque a suo parere non si dà felicità in assenza della funzione naturale propria e della connessa attività . Nel Timeo (34b5-8) Platone allude al dio del primo cielo, ruotante in cerchio, unico e solitario, autosufficiente e non bisognoso di nulla, conoscitore e amatore di se stesso: esso è stato ‘creato’ dal Demiurgo, ma le ragioni elencate paiono in effetti qualificarlo – problematicamente - come “dio felice” (34b8-9, eudàimon, non màkar). Meno complesso è cogliere i tratti della beatitudine del Dio aristotelico, che proprio nell’esercizio dell’attività di pensiero vive una vita perfettamente eccellente e piacevole (Metaph. 1072b 12-30), secondo le ragioni esplicitate anche nell’Etica Nicomachea (1154b 24-28, 1178b 22-27): “la felicità non solo è connessa, come già la tradizione aveva preteso, per ogni essere e dunque anche per Dio, a un’attività, ma esplicitamente alla piacevolezza che, del pari per ogni essere, non può non conseguire all’esercizio non ostacolato della disposizione naturale: in ciò consiste, propriamente, l’attività e l’esercizio di tale attività è piacevole, requisito reputato ora a sua volta indispensabile della felicità”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.