Abstract relazione - Da alcuni anni nella mia ricerca pedagogica e pratica educativa, in una zona interiore al confine con il sogno ricorre l’immagine di una nave che abbandona un corso d’acqua privo di sbocchi: una nave che, con mia grande sorpresa, si avvia a oltrepassare una collina per guadagnare altri corsi d’acqua più vitali. Suggestioni come questa, splendidamente evocata dal film 'Fitzcarraldo' di Werner Herzog, mi hanno fortunatamente accompagnato in molti laboratori teatrali e attività creative in diverse realtà, anche difficili. Da anni conduco un laboratorio teatrale in un centro di riabilitazione dove sono ricoverati adolescenti sofferenti di depressione, anche grave. Questa esperienza, in fortunata concomitanza con la mia ricerca pedagogica, mi ha indotto a confrontarmi con l’inadeguatezza delle competenze settoriali, siano esse pedagogiche, psicoterapeutiche o psichiatriche, a fronte di problemi complessi e inquietanti che investono la nostra comune condizione di malessere diffuso. Un malessere che si manifesta in vero e proprio disagio lì dove la fragilità dei soggetti, e la tentazione oggettivante e prescrittiva delle strutture istituzionali preposte, entrano in un cortocircuito spesso per tutti invalidante. Ho scelto approcci che schivino la linearità dei significati acquisiti, anche quelli condensati nelle diverse diagnosi, privilegiando la logica del processo rispetto a quella del prodotto. Insistere sulla malattia e sul disadattamento rischia di allontanare dalle parti sane: al contrario credo sia più importante stare inventivamente nel luogo sfumato ed elusivo in cui si incontra l’esistenza reale degli adolescenti e dove viene facilitato il transito tra una zona e l’altra, senza troppe fratture e dicotomie che una logica classificatoria potrebbe indurre. Cerco di informarmi il meno possibile sulla storia clinica del giovane paziente. Temo infatti che questo crei un diaframma alla mia azione teatrale ed educativa, che tenta di parlare alla sua (e mia) molteplicità. Allentare la presa dei significati acquisiti aiuta ad essere più presente alla situazione e ad attingere al sapere della relazione con il singolo, i singoli: c’è sempre qualcosa che mi sorprende e che non coincide con la descrizione, con il solco tracciato. E fatalmente mi trovo a misurarmi di continuo con il senso del mio stesso agire, a volte riuscendo a coinvolgere nella interrogazione alcuni operatori istituzionali, in una delicata alleanza che aspira a superare la dicotomia educazione/terapia. Il nucleo d’azione della teatralità a cui penso presenta una forza irreversibile quando permette all’esistenza di tracimare dalla propria condizione di oggettiva costrizione o sofferenza. E’ una esondazione feconda che porta in vita parti estensive del sé mai conosciute e valorizzate. Con tali benefici effetti la linearità di alcune istituzioni è destinata a confrontarsi: forse anche spiazzando la pretesa degli educatori di parlare (e pensare) come gli psicologi, e ridimensionando l’ideale (ormai un vero e proprio diktat) del “comunicare”. Se proviamo a “comunicare” in un centro di igiene mentale con ragazzi normodotati diagnosticati come depressi non ci ascolteranno. La loro condizione li pone in un atteggiamento di sincerità assoluta e di grande sensibilità, quando non offuscata dal farmaco: non vogliono saperne della comunicazione, forse ne sono già stati ingannati. La sfida è creare una relazione viva ed evolutiva e avere il desiderio di farlo, in prima persona.

Una delicata Alleanza

PERINA, Renato
2007-01-01

Abstract

Abstract relazione - Da alcuni anni nella mia ricerca pedagogica e pratica educativa, in una zona interiore al confine con il sogno ricorre l’immagine di una nave che abbandona un corso d’acqua privo di sbocchi: una nave che, con mia grande sorpresa, si avvia a oltrepassare una collina per guadagnare altri corsi d’acqua più vitali. Suggestioni come questa, splendidamente evocata dal film 'Fitzcarraldo' di Werner Herzog, mi hanno fortunatamente accompagnato in molti laboratori teatrali e attività creative in diverse realtà, anche difficili. Da anni conduco un laboratorio teatrale in un centro di riabilitazione dove sono ricoverati adolescenti sofferenti di depressione, anche grave. Questa esperienza, in fortunata concomitanza con la mia ricerca pedagogica, mi ha indotto a confrontarmi con l’inadeguatezza delle competenze settoriali, siano esse pedagogiche, psicoterapeutiche o psichiatriche, a fronte di problemi complessi e inquietanti che investono la nostra comune condizione di malessere diffuso. Un malessere che si manifesta in vero e proprio disagio lì dove la fragilità dei soggetti, e la tentazione oggettivante e prescrittiva delle strutture istituzionali preposte, entrano in un cortocircuito spesso per tutti invalidante. Ho scelto approcci che schivino la linearità dei significati acquisiti, anche quelli condensati nelle diverse diagnosi, privilegiando la logica del processo rispetto a quella del prodotto. Insistere sulla malattia e sul disadattamento rischia di allontanare dalle parti sane: al contrario credo sia più importante stare inventivamente nel luogo sfumato ed elusivo in cui si incontra l’esistenza reale degli adolescenti e dove viene facilitato il transito tra una zona e l’altra, senza troppe fratture e dicotomie che una logica classificatoria potrebbe indurre. Cerco di informarmi il meno possibile sulla storia clinica del giovane paziente. Temo infatti che questo crei un diaframma alla mia azione teatrale ed educativa, che tenta di parlare alla sua (e mia) molteplicità. Allentare la presa dei significati acquisiti aiuta ad essere più presente alla situazione e ad attingere al sapere della relazione con il singolo, i singoli: c’è sempre qualcosa che mi sorprende e che non coincide con la descrizione, con il solco tracciato. E fatalmente mi trovo a misurarmi di continuo con il senso del mio stesso agire, a volte riuscendo a coinvolgere nella interrogazione alcuni operatori istituzionali, in una delicata alleanza che aspira a superare la dicotomia educazione/terapia. Il nucleo d’azione della teatralità a cui penso presenta una forza irreversibile quando permette all’esistenza di tracimare dalla propria condizione di oggettiva costrizione o sofferenza. E’ una esondazione feconda che porta in vita parti estensive del sé mai conosciute e valorizzate. Con tali benefici effetti la linearità di alcune istituzioni è destinata a confrontarsi: forse anche spiazzando la pretesa degli educatori di parlare (e pensare) come gli psicologi, e ridimensionando l’ideale (ormai un vero e proprio diktat) del “comunicare”. Se proviamo a “comunicare” in un centro di igiene mentale con ragazzi normodotati diagnosticati come depressi non ci ascolteranno. La loro condizione li pone in un atteggiamento di sincerità assoluta e di grande sensibilità, quando non offuscata dal farmaco: non vogliono saperne della comunicazione, forse ne sono già stati ingannati. La sfida è creare una relazione viva ed evolutiva e avere il desiderio di farlo, in prima persona.
2007
Pedagogia sociale; pedagogia del disagio e della marginalità; teatro sociale.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/314543
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