Di venerdì 16 luglio è la notizia che il filosofo morale tubinghese Ottfried Höffe ha annunciato il ritiro della sua partecipazione alla decima edizione del World Philosophy Day dell’Unesco, ricorrenza annuale fissata alla terza settimana di ogni novembre, iniziata a Parigi nel 2002 e che quest’anno si svolgerà a Teheran dal 20 al 22 novembre, perché il premier Mahmoud Ahmadinedjad ha sostituito alla guida dell’organizzazione il decano dei filosofi dell’Accademia Iraniana delle Scienze Gholamreza Aavani, studioso celebre e di grande equilibrio, con Gholamali Haddad-Adel, filosofo prestato alla politica, già portavoce e poi presidente del parlamento iraniano, nonché consuocero dello ayatollah Ali Khamenei. Un vero peccato, perché non sono numerosi gli eventi di rilievo globale dedicati al dialogo tra culture; e una strumentalizzazione a fini propagandistici è del tutto contraria al compito, epistemologico ancor prima che etico, di assumere dentro di sé, come spiegano Cacciatore e D’Anna nel volume sull’interculturalità (dedicato alla memoria dell’indimenticabile Giorgio Baratta), “l’aporia della resistenza concreta della differenza”. L’aporia di porre le narrazioni identitarie plurali come problema e fattore dinamico irriducibile ed eccedente il pluralismo e l’eterogeneità delle manifestazioni e delle espressioni culturali e politiche. Non a caso, la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, che riunisce più di cento società filosofiche del mondo, ha un comitato dedicato alla “Intercultural Research in Philosophy”, del quale fanno parte William Sweet, Marcelo Dascal, Basilio Rojo Ruiz, Ken-ichi Sasaki e Marietta Stepaniants. Quella dell’interculturalità è una sfera intermedia, nella quale l’intermedietà non può essere ricondotta né a ciò che è proprio, né integrato in una totalità, né tantomeno sottoposto a leggi universali, e che è invece una terra di nessuno, dunque, una regione di confine che collega e separa allo stesso tempo. Nell’interculturalità troviamo la ripresa della translatio studiorum nel ventunesimo secolo: uno stare tra le culture conseguenza di processi d’ibridazione, mescolamento, continuo reciproco trasmettersi di testi, simbologie, miti, religioni e forme di vita. Cacciatore propone un’etica interculturale concepita come continua relazione tra particolarità differenziate e tendenza a un universalismo condiviso. Il concetto di universalizzazione va inteso dinamicamente e criticamente aperto alla pluralità delle istanze etiche e politiche delle culture, come universalismo critico basato sul senso comune di vichiana memoria, che non è “solo funzione logico-cognitiva, né solo spazio di raccolta di differenti esperienze storico-politiche e antropologico-culturali, ma anche essenzialmente universalizzazione di un’idea di comunanza come luogo privilegiato dei bisogni umani e delle comuni utilità”. Infatti, non è concepibile, ricorda Cacciatore, che un dialogo interculturale non tenga costantemente conto del fatto che i principi e le regole non derivano da un astratto universalismo, ma da un processo storico di universalizzazione che guarda ai principi senza cancellare il complesso delle specificità storiche e culturali che li caratterizzano e che lasci spazio all’immaginazione, motore vero del processo di ibridazione interculturale. Nello stesso volume, Sebastiano Maffettone ha invece messo in risalto i limiti del cosmopolitismo puro, che non chiarisce in che senso dovremmo prendere la giustizia distributiva globale. A fronte dell’esigenza di coordinare il livello empirico dell’appartenenza e quello normativo del trattamento, sembra più plausibile pensare a doveri compositi di giustizia, che vanno dalla piena reciprocità interstatale a forme minimali di doveri naturali verso gli stranieri. Con molto garbo, infine, Michele Cometa ha affrontato le vite in esilio di molti scrittori e ha proposto la tesi paradossale che poiché tutte le letterature sarebbero frutto di negoziazioni tra identità differenti ne segue che tutte le letterature anche quelle apparentemente nazionali sarebbero letterature in migrazione, nessuna esclusa. L’interculturalità si inserisce così nella più ampia questione della dimensione narrativa dell’esperienza umana, ribadita nel ventesimo secolo dall’antropologia filosofica di Odo Marquardt e dallo storicismo critico dello stesso Cacciatore. Se è vero che il riconoscimento ha luogo attraverso pratiche sempre revocabili, è anche vero che il riconoscimento delle varietà culturali è l’inizio di un processo che nasce direttamente dall’idea di ciò che è universalmente umano. Ma sarà proprio il riconoscimento a mancare a Teheran in novembre, visto che in coerenza con una prospettiva interculturale, come ammonisce Cacciatore nel volume su interculturalità, religione e teologia politica, il plausibile terreno d’intesa tra tradizioni religiose e culturali diverse non può essere individuato né nella rigida contrapposizione tra le rispettive credenze e pratiche religiose, né nella secca alternativa tra fede e ragione o, in modo più radicale, tra religione e agnosticismo, perché tali posizioni precludono ogni possibilità di reale comprensione dell’evolversi e del trasfigurarsi dell’esperienza storica delle religioni. Food for thought, dunque, e quanto mai attuale. Giuseppe Cacciatore e Giuseppe D’Anna, Interculturalità, Carocci, Roma 2010, 207 p., ISBN 9788843050857 Giuseppe Cacciatore e Rosario Diana, Interculturalità: Religione e teologia politica, Guida, Napoli 2010, 168 p., ISBN 9788860427229
Congresso mondiale di filosofia a Teheran/La débâcle dell’interculturalità
POZZO, Riccardo
2010-01-01
Abstract
Di venerdì 16 luglio è la notizia che il filosofo morale tubinghese Ottfried Höffe ha annunciato il ritiro della sua partecipazione alla decima edizione del World Philosophy Day dell’Unesco, ricorrenza annuale fissata alla terza settimana di ogni novembre, iniziata a Parigi nel 2002 e che quest’anno si svolgerà a Teheran dal 20 al 22 novembre, perché il premier Mahmoud Ahmadinedjad ha sostituito alla guida dell’organizzazione il decano dei filosofi dell’Accademia Iraniana delle Scienze Gholamreza Aavani, studioso celebre e di grande equilibrio, con Gholamali Haddad-Adel, filosofo prestato alla politica, già portavoce e poi presidente del parlamento iraniano, nonché consuocero dello ayatollah Ali Khamenei. Un vero peccato, perché non sono numerosi gli eventi di rilievo globale dedicati al dialogo tra culture; e una strumentalizzazione a fini propagandistici è del tutto contraria al compito, epistemologico ancor prima che etico, di assumere dentro di sé, come spiegano Cacciatore e D’Anna nel volume sull’interculturalità (dedicato alla memoria dell’indimenticabile Giorgio Baratta), “l’aporia della resistenza concreta della differenza”. L’aporia di porre le narrazioni identitarie plurali come problema e fattore dinamico irriducibile ed eccedente il pluralismo e l’eterogeneità delle manifestazioni e delle espressioni culturali e politiche. Non a caso, la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, che riunisce più di cento società filosofiche del mondo, ha un comitato dedicato alla “Intercultural Research in Philosophy”, del quale fanno parte William Sweet, Marcelo Dascal, Basilio Rojo Ruiz, Ken-ichi Sasaki e Marietta Stepaniants. Quella dell’interculturalità è una sfera intermedia, nella quale l’intermedietà non può essere ricondotta né a ciò che è proprio, né integrato in una totalità, né tantomeno sottoposto a leggi universali, e che è invece una terra di nessuno, dunque, una regione di confine che collega e separa allo stesso tempo. Nell’interculturalità troviamo la ripresa della translatio studiorum nel ventunesimo secolo: uno stare tra le culture conseguenza di processi d’ibridazione, mescolamento, continuo reciproco trasmettersi di testi, simbologie, miti, religioni e forme di vita. Cacciatore propone un’etica interculturale concepita come continua relazione tra particolarità differenziate e tendenza a un universalismo condiviso. Il concetto di universalizzazione va inteso dinamicamente e criticamente aperto alla pluralità delle istanze etiche e politiche delle culture, come universalismo critico basato sul senso comune di vichiana memoria, che non è “solo funzione logico-cognitiva, né solo spazio di raccolta di differenti esperienze storico-politiche e antropologico-culturali, ma anche essenzialmente universalizzazione di un’idea di comunanza come luogo privilegiato dei bisogni umani e delle comuni utilità”. Infatti, non è concepibile, ricorda Cacciatore, che un dialogo interculturale non tenga costantemente conto del fatto che i principi e le regole non derivano da un astratto universalismo, ma da un processo storico di universalizzazione che guarda ai principi senza cancellare il complesso delle specificità storiche e culturali che li caratterizzano e che lasci spazio all’immaginazione, motore vero del processo di ibridazione interculturale. Nello stesso volume, Sebastiano Maffettone ha invece messo in risalto i limiti del cosmopolitismo puro, che non chiarisce in che senso dovremmo prendere la giustizia distributiva globale. A fronte dell’esigenza di coordinare il livello empirico dell’appartenenza e quello normativo del trattamento, sembra più plausibile pensare a doveri compositi di giustizia, che vanno dalla piena reciprocità interstatale a forme minimali di doveri naturali verso gli stranieri. Con molto garbo, infine, Michele Cometa ha affrontato le vite in esilio di molti scrittori e ha proposto la tesi paradossale che poiché tutte le letterature sarebbero frutto di negoziazioni tra identità differenti ne segue che tutte le letterature anche quelle apparentemente nazionali sarebbero letterature in migrazione, nessuna esclusa. L’interculturalità si inserisce così nella più ampia questione della dimensione narrativa dell’esperienza umana, ribadita nel ventesimo secolo dall’antropologia filosofica di Odo Marquardt e dallo storicismo critico dello stesso Cacciatore. Se è vero che il riconoscimento ha luogo attraverso pratiche sempre revocabili, è anche vero che il riconoscimento delle varietà culturali è l’inizio di un processo che nasce direttamente dall’idea di ciò che è universalmente umano. Ma sarà proprio il riconoscimento a mancare a Teheran in novembre, visto che in coerenza con una prospettiva interculturale, come ammonisce Cacciatore nel volume su interculturalità, religione e teologia politica, il plausibile terreno d’intesa tra tradizioni religiose e culturali diverse non può essere individuato né nella rigida contrapposizione tra le rispettive credenze e pratiche religiose, né nella secca alternativa tra fede e ragione o, in modo più radicale, tra religione e agnosticismo, perché tali posizioni precludono ogni possibilità di reale comprensione dell’evolversi e del trasfigurarsi dell’esperienza storica delle religioni. Food for thought, dunque, e quanto mai attuale. Giuseppe Cacciatore e Giuseppe D’Anna, Interculturalità, Carocci, Roma 2010, 207 p., ISBN 9788843050857 Giuseppe Cacciatore e Rosario Diana, Interculturalità: Religione e teologia politica, Guida, Napoli 2010, 168 p., ISBN 9788860427229I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.