Il teatro della Restaurazione inglese offre, rispetto al tema del male e del suo esercizio quale ossimorica fonte di piacere, un percorso di indagine che si articola nella presenza – spesso esibita sulla scena – di elementi legati all’orrore, sia derivante dalla violenza esplicitamente perpetratavi, sia nella sua costruzione retorica. Questo aspetto pare assumere, nella tormentata stagione storica che va dal ritorno di Carlo II sul trono alla Rivoluzione del 1688, e in special modo negli anni della Congiura papista e della Crisi dell’esclusione (1678-81), differenti e differentemente problematiche caratteristiche. Per almeno un decennio dopo la Restaurazione, l’introduzione nelle rappresentazioni teatrali di grandi scene di violenza (massacri, torture, smembramenti, ecc.) è inscritta nelle possibilità scenotecniche di recente introduzione nei teatri da poco riaperti. I drammi, per esempio The Empress of Morocco (1673) di Elkanah Settle, fanno sfoggio performativo di orribili quadri scenici che si concretizzano per esempio, attraverso l’utilizzo di macchine per il volo, botole, fondali dipinti e scorrevoli, nell’evocazione e rappresentazione dell’inferno a sottolineare una esigenza di rappresentazione/esibizione del macabro. Sangue, violenza, mutilazioni sono raramente presenze allusive o agite altrove, ma sono poste invece sotto gli occhi di chi guarda attraverso strategie legate sia alla meccanica della messa in scena, in taluni casi sottolineata anche da sottintesi metateatrali, sia a percorsi di accentuazione retorico-descrittiva che amplificano la portata orrifica dell’azione. Così, ad esempio nei drammi di Nathaniel Lee e di Thomas Otway, l’atteggiamento prevaricatorio e l’aggressiva prepotenza di Nerone (Nero, 1674) e di Filippo II (Don Carlos, 1676) si lega all’esercizio del loro potere, che essi esercitano finalizzandolo al loro personale godimento. Da una parte, Nerone, nell’omonimo dramma di Lee, si proclama dio (“Sono un dio, me stesso io canonizzo”, 1.2.28) e si compiace nel pretendere offerte a lui dedicate in templi nei quali alla magnificenza dei materiali si unisce l’orrore di sacrifici umani: “[…] avrò / Altari d’oro eretti in templi di cristallo: / non sangue di buoi o capre vi sarà versato / […] Ma il migliore sangue umano laverà il mio santuario; / […] Offrite dunque un grato sacrificio, / Teste di re, cuori di regine, occhi di seducenti vergini.” (1.2.71-82). Dall’altra, la vendetta del re spagnolo contro il presunto tradimento della regina, da lui stesso ordita fin nei dettagli, è appagamento non soltanto della gelosia, ma anche dei sensi attraverso una sorta di messa in scena in cui egli è ‘attore’ e ‘regista’. In un gioco di perversione metateatrale, che mescola i piani della rappresentazione e della ricezione, Filippo gode dunque sia nel fare che nel vedere il male. Almeno fino alla metà degli anni Settanta, la scena tragica è tuttavia popolata di protagonisti che potremmo definire ‘naturalmente’ negativi, almeno da un punto di vista politico – usurpatori, tiranni – e che trovano nella malvagità il loro spazio, lo prediligono e in esso inseguono una sorta di primato (del male) che diviene ragione del loro essere (e del loro piacere). Più tardi, nel momento in cui la minaccia di una deriva cattolica e assolutistica si percepiva come molto vicina, la cifra dell’orrore si fa ancora più marcata e approda a un differente tipo di percezione del male che trova in sé giustificazione quale via per raggiungere (paradossalmente) un ideale di redenzione e di giustizia. Dopo la conversione all’antica fede dell’erede al trono e fratello di Carlo II, Giacomo Stuart, il sentimento anti-Cattolico, già insito nella società inglese, si era di molto acuito, fino a sfociare, nel 1678, nell’isterismo della cosiddetta Congiura Papista. Il Cattolicesimo rappresentava, agli occhi della maggioranza anglicana, ma anche dei non-Conformist, quanto di più riprovevole e ripugnante: la fedeltà a un tiranno (il Papa), una ritualità fondata su basi dottrinali esecrabili (la Transustanziazione), una giustizia malata e corrotta (l’Inquisizione) e una generale tendenza alla depravazione e alla duplicità costituivano lo standard delle accuse rivolte ai Cattolici. In drammi quali The Massacre of Paris (1678) e Lucius Junius Brutus (1680) ancora di Lee (entrambi censurati), tali caratteristiche sono esplicitamente rappresentate attraverso la messa in scena del massacro della notte di San Bartolomeo del 1572 oppure di una blasfema parodia della liturgia eucaristica quale rituale di sacrificio umano. Così, in The Massacre of Paris, Caterina de’ Medici giustifica, rivolgendosi al figlio, il massacro degli Ugonotti: “[…] Tanto lontano dal peccato / E dalla dannazione è il nostro disegno; / Il cardinale vi dirà, signore / Che è atto meritorio, e quando colpiremo / La Chiesa lo benedirà come fosse colpo scagliato dal cielo.” (5.1.40-44). Ciò apre a una visione problematica del ‘male’ la cui drammatizzazione sembra condurre nella direzione di una sua ossimorica trasfigurazione in ‘bene’, fonte quindi non soltanto di appagamento, ma anche di premio. Così nel Bruto trova spazio una più ampia e complicata concentrazione di figure dell’orrore che va a intaccare anche l’azione di colui che, sin dall’inizio, si è posto invece come il campione della libertà e della giustizia contro la tirannia liberticida e la violenta immoralità di Tarquinio, vale a dire Lucio Giunio Bruto.

Lo spettacolo dell'orrore sul palcoscenico della Restaurazione

Calvi, L.
2017-01-01

Abstract

Il teatro della Restaurazione inglese offre, rispetto al tema del male e del suo esercizio quale ossimorica fonte di piacere, un percorso di indagine che si articola nella presenza – spesso esibita sulla scena – di elementi legati all’orrore, sia derivante dalla violenza esplicitamente perpetratavi, sia nella sua costruzione retorica. Questo aspetto pare assumere, nella tormentata stagione storica che va dal ritorno di Carlo II sul trono alla Rivoluzione del 1688, e in special modo negli anni della Congiura papista e della Crisi dell’esclusione (1678-81), differenti e differentemente problematiche caratteristiche. Per almeno un decennio dopo la Restaurazione, l’introduzione nelle rappresentazioni teatrali di grandi scene di violenza (massacri, torture, smembramenti, ecc.) è inscritta nelle possibilità scenotecniche di recente introduzione nei teatri da poco riaperti. I drammi, per esempio The Empress of Morocco (1673) di Elkanah Settle, fanno sfoggio performativo di orribili quadri scenici che si concretizzano per esempio, attraverso l’utilizzo di macchine per il volo, botole, fondali dipinti e scorrevoli, nell’evocazione e rappresentazione dell’inferno a sottolineare una esigenza di rappresentazione/esibizione del macabro. Sangue, violenza, mutilazioni sono raramente presenze allusive o agite altrove, ma sono poste invece sotto gli occhi di chi guarda attraverso strategie legate sia alla meccanica della messa in scena, in taluni casi sottolineata anche da sottintesi metateatrali, sia a percorsi di accentuazione retorico-descrittiva che amplificano la portata orrifica dell’azione. Così, ad esempio nei drammi di Nathaniel Lee e di Thomas Otway, l’atteggiamento prevaricatorio e l’aggressiva prepotenza di Nerone (Nero, 1674) e di Filippo II (Don Carlos, 1676) si lega all’esercizio del loro potere, che essi esercitano finalizzandolo al loro personale godimento. Da una parte, Nerone, nell’omonimo dramma di Lee, si proclama dio (“Sono un dio, me stesso io canonizzo”, 1.2.28) e si compiace nel pretendere offerte a lui dedicate in templi nei quali alla magnificenza dei materiali si unisce l’orrore di sacrifici umani: “[…] avrò / Altari d’oro eretti in templi di cristallo: / non sangue di buoi o capre vi sarà versato / […] Ma il migliore sangue umano laverà il mio santuario; / […] Offrite dunque un grato sacrificio, / Teste di re, cuori di regine, occhi di seducenti vergini.” (1.2.71-82). Dall’altra, la vendetta del re spagnolo contro il presunto tradimento della regina, da lui stesso ordita fin nei dettagli, è appagamento non soltanto della gelosia, ma anche dei sensi attraverso una sorta di messa in scena in cui egli è ‘attore’ e ‘regista’. In un gioco di perversione metateatrale, che mescola i piani della rappresentazione e della ricezione, Filippo gode dunque sia nel fare che nel vedere il male. Almeno fino alla metà degli anni Settanta, la scena tragica è tuttavia popolata di protagonisti che potremmo definire ‘naturalmente’ negativi, almeno da un punto di vista politico – usurpatori, tiranni – e che trovano nella malvagità il loro spazio, lo prediligono e in esso inseguono una sorta di primato (del male) che diviene ragione del loro essere (e del loro piacere). Più tardi, nel momento in cui la minaccia di una deriva cattolica e assolutistica si percepiva come molto vicina, la cifra dell’orrore si fa ancora più marcata e approda a un differente tipo di percezione del male che trova in sé giustificazione quale via per raggiungere (paradossalmente) un ideale di redenzione e di giustizia. Dopo la conversione all’antica fede dell’erede al trono e fratello di Carlo II, Giacomo Stuart, il sentimento anti-Cattolico, già insito nella società inglese, si era di molto acuito, fino a sfociare, nel 1678, nell’isterismo della cosiddetta Congiura Papista. Il Cattolicesimo rappresentava, agli occhi della maggioranza anglicana, ma anche dei non-Conformist, quanto di più riprovevole e ripugnante: la fedeltà a un tiranno (il Papa), una ritualità fondata su basi dottrinali esecrabili (la Transustanziazione), una giustizia malata e corrotta (l’Inquisizione) e una generale tendenza alla depravazione e alla duplicità costituivano lo standard delle accuse rivolte ai Cattolici. In drammi quali The Massacre of Paris (1678) e Lucius Junius Brutus (1680) ancora di Lee (entrambi censurati), tali caratteristiche sono esplicitamente rappresentate attraverso la messa in scena del massacro della notte di San Bartolomeo del 1572 oppure di una blasfema parodia della liturgia eucaristica quale rituale di sacrificio umano. Così, in The Massacre of Paris, Caterina de’ Medici giustifica, rivolgendosi al figlio, il massacro degli Ugonotti: “[…] Tanto lontano dal peccato / E dalla dannazione è il nostro disegno; / Il cardinale vi dirà, signore / Che è atto meritorio, e quando colpiremo / La Chiesa lo benedirà come fosse colpo scagliato dal cielo.” (5.1.40-44). Ciò apre a una visione problematica del ‘male’ la cui drammatizzazione sembra condurre nella direzione di una sua ossimorica trasfigurazione in ‘bene’, fonte quindi non soltanto di appagamento, ma anche di premio. Così nel Bruto trova spazio una più ampia e complicata concentrazione di figure dell’orrore che va a intaccare anche l’azione di colui che, sin dall’inizio, si è posto invece come il campione della libertà e della giustizia contro la tirannia liberticida e la violenta immoralità di Tarquinio, vale a dire Lucio Giunio Bruto.
2017
978-88-6995-415-3
orrore
teatro
Restaurazione
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/982963
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