A Pedescala e a Settecà, due paesi della Val d’Astico, negli ultimi giorni di guerra, l’esercito tedesco in ritirata si fermò per due giorni dal 30 aprile al 2 maggio 1945 per incendiare le case e massacrare 82 persone, in prevalenza maschi, tra cui il giovane parroco, ma anche alcune donne e bambini in tenera età. Il massacro fu compiuto come rappresaglia da un gruppo eterogeneo di reparti nelle due località, Pedescala e Settecà, per due diversi sequestri di militari tedeschi messi in atto da partigiani con l’aiuto dei civili. La rappresaglia divenne necessaria nell’ottica dei Comandi germanici non solo per vendicare l’affronto subito, ma anche per ripulire il territorio, per proteggere ed agevolare un‘azione militare concomitante. L’esercito germanico, infatti, intendeva costituire un nucleo di resistenza all’avanzata americana prendendo possesso del Castelletto di Rotzo, in quanto la posizione, con gli appostamenti approntati dai lavori della Todt, avrebbe consentito, seppure per un periodo molto limitato, di ostacolare l’avanzata dell’esercito alleato o comunque di procurare perdite al nemico. Il Castelletto assicurava il controllo dell’imboccatura della Valdastico. Il tentativo venne vanificato dalla resistenza dei partigiani sulle alture, ma la popolazione pagò un prezzo altissimo. Dopo due giorni di tentativi di salire sull’altopiano di Asiago, i massacratori lasciarono la zona abbandonando armi, lettere, fotografie, documenti privati e militari dai quali appariva con evidenza la loro identità e che la popolazione consegnò alle autorità americane nella speranza di ottenere giustizia. Invece i colpevoli non furono mai perseguiti. Nei mesi successivi la fine della guerra, la volontà degli Alleati di punire i crimini commessi nel nostro Paese dalle Forze Armate tedesche e fasciste durante l’occupazione cedette il passo alla realpolitik, così nel 1946 quando il fascicolo fu trasmesso alle autorità italiane, l’incartamento era privo di tutti gli allegati, in pratica dei nomi e cognomi dei massacratori, che rimasero sepolti per decenni negli archivi americani. Una volta in Italia il fascicolo finì in quello che viene ormai comunemente chiamato “armadio della vergogna”, a palazzo Cesi a Roma. Quando la Procura militare di Padova, alla fine degli anni Ottanta, riaprì le indagini, la ricostruzione della vicenda fu ostacolata dalle diverse e talora contrastanti deposizioni fornite dai sopravvissuti, alle quali si aggiunsero gli interventi dei giornalisti e dei cultori di storia locale. In realtà le indagini per la ricerca dei colpevoli del massacro furono caratterizzate fin dall’inizio da deviazioni e manipolazioni di indizi e sospetti, persino di situazioni. Troppi agenti dei servizi segreti erano presenti sulla scena dei massacri di Pedescala e di Settecà.

L'ultima valle. La Resistenza in val d'Astico e il massacro di Pedescala e Settecà (30 aprile - 2 maggio 1945)

RESIDORI, Sonia
2015-01-01

Abstract

A Pedescala e a Settecà, due paesi della Val d’Astico, negli ultimi giorni di guerra, l’esercito tedesco in ritirata si fermò per due giorni dal 30 aprile al 2 maggio 1945 per incendiare le case e massacrare 82 persone, in prevalenza maschi, tra cui il giovane parroco, ma anche alcune donne e bambini in tenera età. Il massacro fu compiuto come rappresaglia da un gruppo eterogeneo di reparti nelle due località, Pedescala e Settecà, per due diversi sequestri di militari tedeschi messi in atto da partigiani con l’aiuto dei civili. La rappresaglia divenne necessaria nell’ottica dei Comandi germanici non solo per vendicare l’affronto subito, ma anche per ripulire il territorio, per proteggere ed agevolare un‘azione militare concomitante. L’esercito germanico, infatti, intendeva costituire un nucleo di resistenza all’avanzata americana prendendo possesso del Castelletto di Rotzo, in quanto la posizione, con gli appostamenti approntati dai lavori della Todt, avrebbe consentito, seppure per un periodo molto limitato, di ostacolare l’avanzata dell’esercito alleato o comunque di procurare perdite al nemico. Il Castelletto assicurava il controllo dell’imboccatura della Valdastico. Il tentativo venne vanificato dalla resistenza dei partigiani sulle alture, ma la popolazione pagò un prezzo altissimo. Dopo due giorni di tentativi di salire sull’altopiano di Asiago, i massacratori lasciarono la zona abbandonando armi, lettere, fotografie, documenti privati e militari dai quali appariva con evidenza la loro identità e che la popolazione consegnò alle autorità americane nella speranza di ottenere giustizia. Invece i colpevoli non furono mai perseguiti. Nei mesi successivi la fine della guerra, la volontà degli Alleati di punire i crimini commessi nel nostro Paese dalle Forze Armate tedesche e fasciste durante l’occupazione cedette il passo alla realpolitik, così nel 1946 quando il fascicolo fu trasmesso alle autorità italiane, l’incartamento era privo di tutti gli allegati, in pratica dei nomi e cognomi dei massacratori, che rimasero sepolti per decenni negli archivi americani. Una volta in Italia il fascicolo finì in quello che viene ormai comunemente chiamato “armadio della vergogna”, a palazzo Cesi a Roma. Quando la Procura militare di Padova, alla fine degli anni Ottanta, riaprì le indagini, la ricostruzione della vicenda fu ostacolata dalle diverse e talora contrastanti deposizioni fornite dai sopravvissuti, alle quali si aggiunsero gli interventi dei giornalisti e dei cultori di storia locale. In realtà le indagini per la ricerca dei colpevoli del massacro furono caratterizzate fin dall’inizio da deviazioni e manipolazioni di indizi e sospetti, persino di situazioni. Troppi agenti dei servizi segreti erano presenti sulla scena dei massacri di Pedescala e di Settecà.
2015
9788883148170
Resistenza, ritirata tedesca, occupazione tedesca, massacri nazisti, armadio della vergogna
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/957761
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact