During the First World War, the increased demand for an organized space where to lock up the growing number of prisoners of war, lead the warring countries to upgrade their existing military buildings. Hundreds of captives were not detained in barracks and fortresses, but in a new type of military constructions: the con¬centration camps, composed of clusters of buildings made of wooden shanties or stone. From an economic management point of view, prisoners of war soon be¬came a resource for the war effort, thanks to the imposition of forced labour to the detainees. Despite a cautious launch of this practice, mainly for the fear of undermining the local workforce, Italy soon developed an organized system of forced labour, that deeply affected the military internment structure. Quickly, agriculture and indus¬try, private and public sectors competed for the allocation of prisoners. After the defeat of Caporetto, the Italian state moved the prisoners from the coun¬tryside to the line of battle, where they became second-line troops. As the other belligerent states, the Italian government decided to pursue the division of nation¬alities policy: in the concentration camps inmates were divided by nationality and formed through propaganda, in order to be used aside of the Italian army, as armed legions, approach teams or infiltration services. After the armistice of the 4th November 1918, the massive flow of the Austro-Hungarian prisoners, often starved and in bad conditions, created several prob¬lems to the Italian concentration camps, pointing out the incapacity of certain in¬dividuals, promptly replaced, and the contrasts between the political and the mili¬tary authorities. The prisoners had to endure starvation, cold and epidemics (as ty-phus and malaria), beside the punitive wish of the winners. The Italian State, in¬deed, after the war kept assigning small food rations, as reprisal, to the inmates. Moreover, it obstinately denied the permission of visit to the representatives of the Red Cross, both national (Hungarian and Austrian) and international (Geneva).

Nel corso del primo conflitto mondiale, il numero crescente dei prigionieri di guerra obbligò i Paesi belligeranti a passare dai depositi allestiti in strutture già esistenti, come caserme e fortezze, alla costruzione di campi di concentramento secondo criteri più moderni, edificando agglomerati di baracche in legno o in pie-tra. In un’ottica di gestione economica degli uomini, i prigionieri di guerra costituirono ben presto una risorsa fondamentale per lo sforzo bellico e il lavoro fu reso divenne obbligatorio per tutti i prigionieri. In Italia l’avvio avvenne con cautela per il timore di ledere la manodopera locale, ma ben presto si sviluppò un vero e proprio sistema organizzato di lavoro forzato che modellò la struttura dell’internamento militare e in breve agricoltura e indu-stria, settore privato e quello pubblico si contesero l’assegnazione delle centurie di prigionieri. Dopo la sconfitta di Caporetto, le inevitabili ripercus¬sioni tolsero i prigionieri dal lavoro per l’economia del Paese, per mandarli come manodopera in zona di guerra, dove divennero vere e proprie truppe di seconda linea al fronte. Al pari degli altri stati belligeranti, il governo italiano decise di perseguire la politica della divisione delle nazionalità con la creazione di veri e propri campi di concentra-mento dove, attraverso la propaganda, si formarono reparti di prigionieri di guerra appartenenti alle nazionalità “oppresse” da affiancare, a vario titolo (legioni ar-mate o squadre di avvicinamento o servizio di infiltrazione), all’esercito italiano. Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, l’afflusso massiccio di prigionieri austro-ungarici, mal ridotti e affamati, mise in grande difficoltà la struttura concentrazio-naria italiana, evidenziando le incapacità di taluni singoli, prontamente sostituiti, e i contrasti tra l’autorità politica e quella militare. I prigionieri scontarono la preca-ria situazione con fame, freddo e malattie epidemiche (tifo petecchiale e malaria), ma anche la volontà punitiva dei vincitori. Lo Stato italiano, infatti, mentre asse-gnava razioni alimentari di rappresaglia a guerra terminata, negò sempre ostina-tamente il permesso di visitare le proprie strutture ai rappresentanti della Croce rossa non solo ungherese e austriaca, ma anche quella internazionale di Ginevra.

«Nessuno è rimasto ozioso»: campi di concentramento e prigionieri austro-ungarici in Italia durante la Grande Guerra (1915-1918).

RESIDORI, Sonia
2017-01-01

Abstract

During the First World War, the increased demand for an organized space where to lock up the growing number of prisoners of war, lead the warring countries to upgrade their existing military buildings. Hundreds of captives were not detained in barracks and fortresses, but in a new type of military constructions: the con¬centration camps, composed of clusters of buildings made of wooden shanties or stone. From an economic management point of view, prisoners of war soon be¬came a resource for the war effort, thanks to the imposition of forced labour to the detainees. Despite a cautious launch of this practice, mainly for the fear of undermining the local workforce, Italy soon developed an organized system of forced labour, that deeply affected the military internment structure. Quickly, agriculture and indus¬try, private and public sectors competed for the allocation of prisoners. After the defeat of Caporetto, the Italian state moved the prisoners from the coun¬tryside to the line of battle, where they became second-line troops. As the other belligerent states, the Italian government decided to pursue the division of nation¬alities policy: in the concentration camps inmates were divided by nationality and formed through propaganda, in order to be used aside of the Italian army, as armed legions, approach teams or infiltration services. After the armistice of the 4th November 1918, the massive flow of the Austro-Hungarian prisoners, often starved and in bad conditions, created several prob¬lems to the Italian concentration camps, pointing out the incapacity of certain in¬dividuals, promptly replaced, and the contrasts between the political and the mili¬tary authorities. The prisoners had to endure starvation, cold and epidemics (as ty-phus and malaria), beside the punitive wish of the winners. The Italian State, in¬deed, after the war kept assigning small food rations, as reprisal, to the inmates. Moreover, it obstinately denied the permission of visit to the representatives of the Red Cross, both national (Hungarian and Austrian) and international (Geneva).
2017
campi di prigionia in Italia, Prima guerra mondiale, lavoro forzato, malattie epidemiche, convenzione di Ginevra,
Nel corso del primo conflitto mondiale, il numero crescente dei prigionieri di guerra obbligò i Paesi belligeranti a passare dai depositi allestiti in strutture già esistenti, come caserme e fortezze, alla costruzione di campi di concentramento secondo criteri più moderni, edificando agglomerati di baracche in legno o in pie-tra. In un’ottica di gestione economica degli uomini, i prigionieri di guerra costituirono ben presto una risorsa fondamentale per lo sforzo bellico e il lavoro fu reso divenne obbligatorio per tutti i prigionieri. In Italia l’avvio avvenne con cautela per il timore di ledere la manodopera locale, ma ben presto si sviluppò un vero e proprio sistema organizzato di lavoro forzato che modellò la struttura dell’internamento militare e in breve agricoltura e indu-stria, settore privato e quello pubblico si contesero l’assegnazione delle centurie di prigionieri. Dopo la sconfitta di Caporetto, le inevitabili ripercus¬sioni tolsero i prigionieri dal lavoro per l’economia del Paese, per mandarli come manodopera in zona di guerra, dove divennero vere e proprie truppe di seconda linea al fronte. Al pari degli altri stati belligeranti, il governo italiano decise di perseguire la politica della divisione delle nazionalità con la creazione di veri e propri campi di concentra-mento dove, attraverso la propaganda, si formarono reparti di prigionieri di guerra appartenenti alle nazionalità “oppresse” da affiancare, a vario titolo (legioni ar-mate o squadre di avvicinamento o servizio di infiltrazione), all’esercito italiano. Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, l’afflusso massiccio di prigionieri austro-ungarici, mal ridotti e affamati, mise in grande difficoltà la struttura concentrazio-naria italiana, evidenziando le incapacità di taluni singoli, prontamente sostituiti, e i contrasti tra l’autorità politica e quella militare. I prigionieri scontarono la preca-ria situazione con fame, freddo e malattie epidemiche (tifo petecchiale e malaria), ma anche la volontà punitiva dei vincitori. Lo Stato italiano, infatti, mentre asse-gnava razioni alimentari di rappresaglia a guerra terminata, negò sempre ostina-tamente il permesso di visitare le proprie strutture ai rappresentanti della Croce rossa non solo ungherese e austriaca, ma anche quella internazionale di Ginevra.
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