La tesi di questo lavoro è che ogni azione che si muova nel senso d’un incremento del grado d’apertura al mondo sia un’azione etica. Anzi che l’etica consista proprio in quest’incremento. Il problema non è affatto nuovo e devo anzi dire che uno stimolo importante in questa direzione mi è stato offerto dalla lettura di un passo della Lettera ai Filippesi, quello in cui Paolo dice: «la loro fine è la perdizione, il loro dio è il ventre» (3, 19). Anche il «ventre» ha infatti le sue esigenze, anche il ventre ha gli «occhi», ecco — ho pensato — se l’uomo si riduce a guardare il mondo attraverso gli occhi del proprio «ventre» allora è dannato, ma non nel senso che verrà poi condannato da un qualche tribunale celeste quanto che già in tale condizione è implicito un danno esistenziale, una chiusura e un ripiegamento della vita su se stessa. L’etica mi pare in primo luogo un invito ad evitare tale danno. Ma poi rileggendo Platone ho avuto l’impressione che qualcosa in questa direzione si muovesse già nel Fedone: non si parla forse lì di catarsi da un certo modo di vivere per accedere a «vita nuova» (la filosofia) già in questa vita terrena? Pure la riflessione moderna è ricca di spunti in questa direzione, come quelli offerti da Schelling quando, introducendo il concetto di estasi dall’Io, evidenzia che qui non si tratta di mettere fra parentesi solo la prospettiva sensibile, ma anche il pensiero oggettivante e di dirigersi verso un centro personale concreto. Infine Schopenhauer pone in rilievo come il problema metafisico dell’etica consista essenzialmente nella messa fra parentesi dell’egoismo (cfr. le interessantissime analisi contenute in Die beiden Grundprobleme der Ethik), anche se poi rimane ancorato ad una concezione assolutizzante dell’ego stesso, tanto da ritenere che la sua scomparsa conduca inevitabilmente nel Nirvana. L’etica non richiede però di depauperare la nostra esistenza terrena in nome di valori ultraterreni, ma al contrario è un invito a renderla più ricca e intensa. Bisogna voler veramente bene a se stessi per riuscire a superare l’egoismo. Non si tratta in nessun caso di condannare preventivamente un egoismo inteso come orgoglio per il proprio essere relativo e capace di riconosce all’altro un eguale diritto; in un primo momento il problema è quello di prendere le distanze da quell’assolutizzazione del proprio ego che ricade nell’egocentrismo. Con l’espressione proiettivismo egologico si potrebbe cercare di indicare una delle tendenze fondamentali dell’uomo: la tendenza che, connettendosi alla volontà di potenza nietzschiana dell’homo faber, ha permesso l’importantissimo e irrinunciabile processo di oggettivazione alla base anche del sapere scientifico. Essa tuttavia, se assolutizzata, tende a cancellare la dimensione dell’alterità riducendo all’ego ogni differenza e alimentando l’equivoco di fondo secondo cui il mondo altro non sarebbe che il riflesso del proprio ego. Qui l’ego è pronto a svelare un’indole mistificatoria non appena l’oggettività arrivi a metterne in discussione la centralità. Anche gli «occhi dell’ego» rischiano infine di ricadere in una dannazione analoga a quella degli «occhi del ventre». Nell’etica si fa strada una nuova visuale, capace di trascendere estaticamente la disposizione egologico-proiettiva e che si può identificare con quella della persona. È come se ognuno di questi «sguardi» delimitasse un ambito di realtà sempre meno ristretto e sempre più complesso, in modo da rappresentare un incremento del grado d’apertura e di sintonia col mondo. In una tale concezione dell’etica non è però prevista né una svalutazione del mondo e neppure della corporeità. Si tratta piuttosto di superare l’alternativa fra Idealismo e Realismo cercando di esperire qualcosa che rimane incommensurabile alla logica dell’ego e verso la quale l’ego stesso rimane cieco: la sfera dell’alterità, del diverso, in altre parole di ciò che rimane asimmetrico rispetto alla propria autoprogettualità.

La tesi di questo lavoro è che ogni azione che si muova nel senso d’un incremento del grado d’apertura estatica al mondo sia un’azione etica. Anzi che l’etica consista proprio in quest’incremento. Il problema non è affatto nuovo e devo anzi dire che uno stimolo importante in questa direzione mi è stato offerto dalla lettura di un passo della Lettera ai Filippesi, quello in cui Paolo dice: «la loro fine è la perdizione, il loro dio è il ventre» (3, 19). Anche il «ventre» ha infatti le sue esigenze, anche il ventre ha gli «occhi», ecco — ho pensato — se l’uomo si riduce a guardare il mondo attraverso gli occhi del proprio «ventre» allora è dannato, ma non nel senso che verrà poi condannato da un qualche tribunale celeste quanto che già in tale condizione è implicito un danno esistenziale, una chiusura e un ripiegamento della vita su se stessa. L’etica mi pare in primo luogo un invito ad evitare tale danno. Ma poi rileggendo Platone ho avuto l’impressione che qualcosa in questa direzione si muovesse già nel Fedone: non si parla forse lì di catarsi da un certo modo di vivere per accedere a «vita nuova» (la filosofia) già in questa vita terrena? Pure la riflessione moderna è ricca di spunti in questa direzione, come quelli offerti da Schelling quando, introducendo il concetto di estasi dall’Io, evidenzia che qui non si tratta di mettere fra parentesi solo la prospettiva sensibile, ma anche il pensiero oggettivante e di dirigersi verso un centro personale concreto. Infine Schopenhauer pone in rilievo come il problema metafisico dell’etica consista essenzialmente nella messa fra parentesi dell’egoismo (cfr. le interessantissime analisi contenute in Die beiden Grundprobleme der Ethik), anche se poi rimane ancorato ad una concezione assolutizzante dell’ego stesso, tanto da ritenere che la sua scomparsa conduca inevitabilmente nel Nirvana. L’etica non richiede però di depauperare la nostra esistenza terrena in nome di valori ultraterreni, ma al contrario è un invito a renderla più ricca e intensa. Bisogna voler veramente bene a se stessi per riuscire a superare l’egoismo. Non si tratta in nessun caso di condannare preventivamente un egoismo inteso come orgoglio per il proprio essere relativo e capace di riconosce all’altro un eguale diritto; in un primo momento il problema è quello di prendere le distanze da quell’assolutizzazione del proprio ego che ricade nell’egocentrismo. Con l’espressione proiettivismo egologico si potrebbe cercare di indicare una delle tendenze fondamentali dell’uomo: la tendenza che, connettendosi alla volontà di potenza nietzschiana dell’homo faber, ha permesso l’importantissimo e irrinunciabile processo di oggettivazione alla base anche del sapere scientifico. Essa tuttavia, se assolutizzata, tende a cancellare la dimensione dell’alterità riducendo all’ego ogni differenza e alimentando l’equivoco di fondo secondo cui il mondo altro non sarebbe che il riflesso del proprio ego. Qui l’ego è pronto a svelare un’indole mistificatoria non appena l’oggettività arrivi a metterne in discussione la centralità. Anche gli «occhi dell’ego» rischiano infine di ricadere in una dannazione analoga a quella degli «occhi del ventre». Nell’etica si fa strada una nuova visuale, capace di trascendere estaticamente la disposizione egologico-proiettiva e che si può identificare con quella della persona. È come se ognuno di questi «sguardi» delimitasse un ambito di realtà sempre meno ristretto e sempre più complesso, in modo da rappresentare un incremento del grado d’apertura e di sintonia col mondo. In una tale concezione dell’etica non è però prevista né una svalutazione del mondo e neppure della corporeità. Si tratta piuttosto di superare l’alternativa fra Idealismo e Realismo cercando di esperire qualcosa che rimane incommensurabile alla logica dell’ego e verso la quale l’ego stesso rimane cieco: la sfera dell’alterità, del diverso, in altre parole di ciò che rimane asimmetrico rispetto alla propria autoprogettualità.

La messa fra parentesi dell'ego e i gradi dell'apertura al mondo

CUSINATO, Guido
1997-01-01

Abstract

La tesi di questo lavoro è che ogni azione che si muova nel senso d’un incremento del grado d’apertura estatica al mondo sia un’azione etica. Anzi che l’etica consista proprio in quest’incremento. Il problema non è affatto nuovo e devo anzi dire che uno stimolo importante in questa direzione mi è stato offerto dalla lettura di un passo della Lettera ai Filippesi, quello in cui Paolo dice: «la loro fine è la perdizione, il loro dio è il ventre» (3, 19). Anche il «ventre» ha infatti le sue esigenze, anche il ventre ha gli «occhi», ecco — ho pensato — se l’uomo si riduce a guardare il mondo attraverso gli occhi del proprio «ventre» allora è dannato, ma non nel senso che verrà poi condannato da un qualche tribunale celeste quanto che già in tale condizione è implicito un danno esistenziale, una chiusura e un ripiegamento della vita su se stessa. L’etica mi pare in primo luogo un invito ad evitare tale danno. Ma poi rileggendo Platone ho avuto l’impressione che qualcosa in questa direzione si muovesse già nel Fedone: non si parla forse lì di catarsi da un certo modo di vivere per accedere a «vita nuova» (la filosofia) già in questa vita terrena? Pure la riflessione moderna è ricca di spunti in questa direzione, come quelli offerti da Schelling quando, introducendo il concetto di estasi dall’Io, evidenzia che qui non si tratta di mettere fra parentesi solo la prospettiva sensibile, ma anche il pensiero oggettivante e di dirigersi verso un centro personale concreto. Infine Schopenhauer pone in rilievo come il problema metafisico dell’etica consista essenzialmente nella messa fra parentesi dell’egoismo (cfr. le interessantissime analisi contenute in Die beiden Grundprobleme der Ethik), anche se poi rimane ancorato ad una concezione assolutizzante dell’ego stesso, tanto da ritenere che la sua scomparsa conduca inevitabilmente nel Nirvana. L’etica non richiede però di depauperare la nostra esistenza terrena in nome di valori ultraterreni, ma al contrario è un invito a renderla più ricca e intensa. Bisogna voler veramente bene a se stessi per riuscire a superare l’egoismo. Non si tratta in nessun caso di condannare preventivamente un egoismo inteso come orgoglio per il proprio essere relativo e capace di riconosce all’altro un eguale diritto; in un primo momento il problema è quello di prendere le distanze da quell’assolutizzazione del proprio ego che ricade nell’egocentrismo. Con l’espressione proiettivismo egologico si potrebbe cercare di indicare una delle tendenze fondamentali dell’uomo: la tendenza che, connettendosi alla volontà di potenza nietzschiana dell’homo faber, ha permesso l’importantissimo e irrinunciabile processo di oggettivazione alla base anche del sapere scientifico. Essa tuttavia, se assolutizzata, tende a cancellare la dimensione dell’alterità riducendo all’ego ogni differenza e alimentando l’equivoco di fondo secondo cui il mondo altro non sarebbe che il riflesso del proprio ego. Qui l’ego è pronto a svelare un’indole mistificatoria non appena l’oggettività arrivi a metterne in discussione la centralità. Anche gli «occhi dell’ego» rischiano infine di ricadere in una dannazione analoga a quella degli «occhi del ventre». Nell’etica si fa strada una nuova visuale, capace di trascendere estaticamente la disposizione egologico-proiettiva e che si può identificare con quella della persona. È come se ognuno di questi «sguardi» delimitasse un ambito di realtà sempre meno ristretto e sempre più complesso, in modo da rappresentare un incremento del grado d’apertura e di sintonia col mondo. In una tale concezione dell’etica non è però prevista né una svalutazione del mondo e neppure della corporeità. Si tratta piuttosto di superare l’alternativa fra Idealismo e Realismo cercando di esperire qualcosa che rimane incommensurabile alla logica dell’ego e verso la quale l’ego stesso rimane cieco: la sfera dell’alterità, del diverso, in altre parole di ciò che rimane asimmetrico rispetto alla propria autoprogettualità.
1997
Platone; Schelling; Scheler; estasi; riduzione fenomenologica
La tesi di questo lavoro è che ogni azione che si muova nel senso d’un incremento del grado d’apertura al mondo sia un’azione etica. Anzi che l’etica consista proprio in quest’incremento. Il problema non è affatto nuovo e devo anzi dire che uno stimolo importante in questa direzione mi è stato offerto dalla lettura di un passo della Lettera ai Filippesi, quello in cui Paolo dice: «la loro fine è la perdizione, il loro dio è il ventre» (3, 19). Anche il «ventre» ha infatti le sue esigenze, anche il ventre ha gli «occhi», ecco — ho pensato — se l’uomo si riduce a guardare il mondo attraverso gli occhi del proprio «ventre» allora è dannato, ma non nel senso che verrà poi condannato da un qualche tribunale celeste quanto che già in tale condizione è implicito un danno esistenziale, una chiusura e un ripiegamento della vita su se stessa. L’etica mi pare in primo luogo un invito ad evitare tale danno. Ma poi rileggendo Platone ho avuto l’impressione che qualcosa in questa direzione si muovesse già nel Fedone: non si parla forse lì di catarsi da un certo modo di vivere per accedere a «vita nuova» (la filosofia) già in questa vita terrena? Pure la riflessione moderna è ricca di spunti in questa direzione, come quelli offerti da Schelling quando, introducendo il concetto di estasi dall’Io, evidenzia che qui non si tratta di mettere fra parentesi solo la prospettiva sensibile, ma anche il pensiero oggettivante e di dirigersi verso un centro personale concreto. Infine Schopenhauer pone in rilievo come il problema metafisico dell’etica consista essenzialmente nella messa fra parentesi dell’egoismo (cfr. le interessantissime analisi contenute in Die beiden Grundprobleme der Ethik), anche se poi rimane ancorato ad una concezione assolutizzante dell’ego stesso, tanto da ritenere che la sua scomparsa conduca inevitabilmente nel Nirvana. L’etica non richiede però di depauperare la nostra esistenza terrena in nome di valori ultraterreni, ma al contrario è un invito a renderla più ricca e intensa. Bisogna voler veramente bene a se stessi per riuscire a superare l’egoismo. Non si tratta in nessun caso di condannare preventivamente un egoismo inteso come orgoglio per il proprio essere relativo e capace di riconosce all’altro un eguale diritto; in un primo momento il problema è quello di prendere le distanze da quell’assolutizzazione del proprio ego che ricade nell’egocentrismo. Con l’espressione proiettivismo egologico si potrebbe cercare di indicare una delle tendenze fondamentali dell’uomo: la tendenza che, connettendosi alla volontà di potenza nietzschiana dell’homo faber, ha permesso l’importantissimo e irrinunciabile processo di oggettivazione alla base anche del sapere scientifico. Essa tuttavia, se assolutizzata, tende a cancellare la dimensione dell’alterità riducendo all’ego ogni differenza e alimentando l’equivoco di fondo secondo cui il mondo altro non sarebbe che il riflesso del proprio ego. Qui l’ego è pronto a svelare un’indole mistificatoria non appena l’oggettività arrivi a metterne in discussione la centralità. Anche gli «occhi dell’ego» rischiano infine di ricadere in una dannazione analoga a quella degli «occhi del ventre». Nell’etica si fa strada una nuova visuale, capace di trascendere estaticamente la disposizione egologico-proiettiva e che si può identificare con quella della persona. È come se ognuno di questi «sguardi» delimitasse un ambito di realtà sempre meno ristretto e sempre più complesso, in modo da rappresentare un incremento del grado d’apertura e di sintonia col mondo. In una tale concezione dell’etica non è però prevista né una svalutazione del mondo e neppure della corporeità. Si tratta piuttosto di superare l’alternativa fra Idealismo e Realismo cercando di esperire qualcosa che rimane incommensurabile alla logica dell’ego e verso la quale l’ego stesso rimane cieco: la sfera dell’alterità, del diverso, in altre parole di ciò che rimane asimmetrico rispetto alla propria autoprogettualità.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/473559
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