Le procedure endovascolari, introdotte negli anni ’70 per il trattamento a minima invasività di lesioni vascolari di difficile accesso o ad elevato rischio chirurgico (lesioni vascolari intracraniche, angiodisplasie, etc.), hanno avuto negli anni ’80 e soprattutto nell’ultimo decennio un’evoluzione “esplosiva” nel trattamento di pressoché tutte le patologie arteriose, sia di tipo ostruttivo che dilatativo,dei diversi territori vascolari (1, 2). Negli anni ’90, per molte patologie arteriose si è verificata un’inversione di tendenza e per esse è diventato approccio di prima scelta la procedura endovascolare, sostituendosi quasi completamente all’intervento chirurgico o integrandosi con esso per permettere di ottenere risultati più duraturi nel tempo. Pertanto, negli ultimi anni, le procedure percutanee hanno avuto un rapido sviluppo e si è tentato di applicare tali metodiche a tutti gli ambiti della patologia vascolare; questo anche in considerazione del continuo e progressivo sviluppo di nuovi materiali. L’applicazione delle tecniche endovascolari al distretto sovraortico, e alle arterie carotidi in particolare, è sicuramente quella che ha più faticato ad affermarsi, soprattutto in considerazione del rischio di embolizzazione del sistema nervoso centrale e agli ottimi risultati attualmente raggiunti dalla chirurgia carotidea (3). L’ictus ischemico cerebrale rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie; si pensi che studi della letteratura riportano l’ictus come responsabile del 26,3% delle morti in Giappone, del 9,4% in Italia e del 6,3% negli USA (4). La mortalità a 30 giorni dall’ictus raggiunge il 20%, mentre la sopravvivenza a 1 e a 5 anni è rispettivamente del 52% e del 30%. Fra coloro che superano un ictus 2/3 presentano deficit neurologici permanenti, la metà sopravvive per almeno 5 anni e 1/3 richiedono una riabilitazione in centri specializzati; solo il 36% ritorna ad un’attività lavorativa e il 4% rimane non autosufficiente (5). L’infarto cerebrale ischemico è responsabile di oltre l’80% dei casi d’ictus nella popolazione, di cui solo il 16-20% è d’origine cardioembolica, mentre la patogenesi della grande maggioranza di tali eventi è da ricondursi alla presenza di placche aterosclerotiche a livello dei principali vasi cerebroafferenti ed in particolare a livello della biforcazione carotidea.

Non disponibile

Pazienti ad alto rischio in patologia carotidea: endoarterectomia vs. trattamento endovascolare

MIGLIARA, Bruno
2007-01-01

Abstract

Non disponibile
2007
patologia carotidea; endoarterectomia; trattamento endovascolare
Le procedure endovascolari, introdotte negli anni ’70 per il trattamento a minima invasività di lesioni vascolari di difficile accesso o ad elevato rischio chirurgico (lesioni vascolari intracraniche, angiodisplasie, etc.), hanno avuto negli anni ’80 e soprattutto nell’ultimo decennio un’evoluzione “esplosiva” nel trattamento di pressoché tutte le patologie arteriose, sia di tipo ostruttivo che dilatativo,dei diversi territori vascolari (1, 2). Negli anni ’90, per molte patologie arteriose si è verificata un’inversione di tendenza e per esse è diventato approccio di prima scelta la procedura endovascolare, sostituendosi quasi completamente all’intervento chirurgico o integrandosi con esso per permettere di ottenere risultati più duraturi nel tempo. Pertanto, negli ultimi anni, le procedure percutanee hanno avuto un rapido sviluppo e si è tentato di applicare tali metodiche a tutti gli ambiti della patologia vascolare; questo anche in considerazione del continuo e progressivo sviluppo di nuovi materiali. L’applicazione delle tecniche endovascolari al distretto sovraortico, e alle arterie carotidi in particolare, è sicuramente quella che ha più faticato ad affermarsi, soprattutto in considerazione del rischio di embolizzazione del sistema nervoso centrale e agli ottimi risultati attualmente raggiunti dalla chirurgia carotidea (3). L’ictus ischemico cerebrale rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie; si pensi che studi della letteratura riportano l’ictus come responsabile del 26,3% delle morti in Giappone, del 9,4% in Italia e del 6,3% negli USA (4). La mortalità a 30 giorni dall’ictus raggiunge il 20%, mentre la sopravvivenza a 1 e a 5 anni è rispettivamente del 52% e del 30%. Fra coloro che superano un ictus 2/3 presentano deficit neurologici permanenti, la metà sopravvive per almeno 5 anni e 1/3 richiedono una riabilitazione in centri specializzati; solo il 36% ritorna ad un’attività lavorativa e il 4% rimane non autosufficiente (5). L’infarto cerebrale ischemico è responsabile di oltre l’80% dei casi d’ictus nella popolazione, di cui solo il 16-20% è d’origine cardioembolica, mentre la patogenesi della grande maggioranza di tali eventi è da ricondursi alla presenza di placche aterosclerotiche a livello dei principali vasi cerebroafferenti ed in particolare a livello della biforcazione carotidea.
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