A compimento avvenuto di un lavoro di ricerca, se esso è stato onesto e rigoroso, si assapora sempre il gusto della sorpresa: ciò avviene in misura massima quando la ricerca ha avuto vicissitudini alterne e ha percorso strade scoscese, com’è il caso del presente studio. Tale è la sensazione che mi ha pervaso nel corso della scrittura di questa tesi. È stato come veder germinare improvvisamente, dinanzi ai miei occhi, i semi che avevano riposato a lungo sotto una spessa coltre di terreno. Il tempo della semina era ormai passato e la cura che dedicavo alle piccole creature sepolte nella terra sembrava non dare alcun frutto. Eppure, mano a mano che lavoravo sui dati e scrivevo, qualcosa d’inatteso si preparava a fendere il terreno e ad emergere pian piano. Forma e colore della pianta portavano in sé qualcosa di unico, qualcosa di nuovo, che solo alla fine dell’intero processo ho potuto apprezzare. All’inizio del percorso, non avrei mai immaginato di ritrovarmi fra le mani ciò che oggi riconosco come risultato del mio lavoro. Forse non è l’esito che da principio avevo immaginato d’ottenere, ma è qualcosa che comunque mi sorprende. E ne sono felice. Parte delle ragioni per cui l’esito non corrisponde alle attese iniziali è sospeso al fatto che, nel passaggio dalla progettazione alla ricerca sul campo, l’impianto iniziale ha subito una decisiva virata verso l’etnografia. Altre ragioni, pertengono alla natura stessa dell’approccio etnografico il quale – come scrive Woods – “non sempre è un approccio guidato da specifici obiettivi, con linee sistematicamente programmate sin dall’inizio” (Woods, 2003: 46). Infine, alcune ragioni sono dettate dai limiti che ho incontrato cammin facendo e, quindi, dai necessari adattamenti che ha dovuto subire il piano di lavoro tracciato. In questa ricerca ho inteso esplorare alcuni nodi critici relativi all’impatto di una tipologia di servizi educativi rivolti a “minori a disagio” sui preadolescenti figli d’immigrati e sulle loro famiglie. Impatto inteso sia come innesto di potenziale trasformativo nei percorsi di questi giovani, sia come “riduzione del disagio” che si suppone essi stiano vivendo, sia come riverbero delle rappresentazioni, delle categorie mentali e dei saperi prodotti da educatrici ed educatori sul lavoro di prevenzione. Pratiche e saperi di prevenzione educativa sono l’oggetto sul quale, dopo un lungo percorso, si è concentrato il mio studio. Essi vanno intesi come quel pensare e quell’agire che educatrici ed educatori investono nel loro lavoro con i minori utenti del servizio. Per esplorare tali questioni, ho trovato particolarmente indicato, quale campo di ricerca, un servizio che negli ultimi anni ha avuto un rapido sviluppo nel territorio della città di Verona: il Centro diurno per minori. Sia perché esso annovera esplicitamente fra i suoi obiettivi quello della “prevenzione del disagio”, sia perché, fra i suoi utenti, ha visto crescere progressivamente la presenza dei figli di stranieri, ricongiunti o nati in Italia. Nella media tale presenza si attesta attorno al 50% e in un caso raggiunge il 61% sul totale dei ragazzi che fruiscono del servizio. La ricerca, che si è avvalsa di un approccio di tipo etnografico, è iniziata con l’accostamento alle pratiche mediante il metodo dell’osservazione partecipante in quanto un siffatto studio non poteva prescindere dalla frequentazione prolungata dei Centri diurni per minori. Successivamente, l’affinamento dell’osservazione mi ha condotto a considerare l’importanza dei presupposti epistemici ovvero le teorie da cui muovono le pratiche degli educatori e i saperi dell’esperienza (Jedlowski, 1994) che essi hanno maturato. Nel corso dell’analisi, le categorie semantiche emerse dai discorsi degli educatori hanno subito un lavoro di de-costruzione e di problematizzazione. Se all’inizio avevo assunto acriticamente concetti come quello di disagio e teorie come quella della prevenzione basata sul bilanciamento tra fattori di rischio e fattori protettivi, grazie al dialogo tra pratica di ricerca, riflessione, colloqui di supervisione e studio bibliografico, ho progressivamente acquisito consapevolezza della non neutralità di quei concetti e di quelle teorie. Mi sono accorto, soprattutto, che il fatto di dare per scontato il significato di quei concetti e teorie era un effetto creato dal terreno culturale comune che condividevo con educatrici ed educatori dei Centri diurni, la maggior parte dei quali erano stati – o sono – studenti dello stesso corso di laurea che ho frequentato io. Non bastava, quindi, procedere ad un lavoro di concettualizzazione come suggerisce Bezzi (2003: 225-272), ma è stato necessario scavare al di sotto della superficie e realizzare una fenomenologia dei saperi per cogliere tutte le implicazioni dell’uso di una certo linguaggio e delle relative categorie semantiche. Il lavoro fenomenologico sui concetti di disagio, rischio e prevenzione ha fatto emergere le categorie mentali grazie alle quali i professionisti dell’educazione interpretano le difficoltà delle famiglie immigrate e dei loro figli, e ha rivelato le modalità in cui essi pensano il lavoro educativo. I tentativi di dar risposta alla domanda sulle caratteristiche di tale lavoro e sul suo potenziale trasformativo per i figli d’immigrati, hanno svelato nuove questioni e generato nuove domande: che significato assume una presenza tanto ampia di figli d’immigrati fra gli utenti dei Centri diurni? Attraverso quali percorsi costoro raggiungono tali servizi e ne diventano utenti? Quale apparato concettuale, quali categorie mentali utilizza chi valuta il potenziale rischio di questi ragazzi e ragazze? Quale ruolo assumono i servizi sociali nel delineare i criteri di rischio e, quindi, nel decretare lo stato di necessità di tali minori? Quale consistenza dare all’ipotesi del disagio che sta a monte dell’inserimento nei Centri diurni? Nel corso dello studio ho rivolto un’attenzione particolare non solo alla generazione della teoria, ma anche alla costruzione del metodo grazie al quale evocare i dati. Una parte consistente di tale attenzione è stata dedicata all’autocomprensione epistemica (Mortari, 2007) e allo studio delle condizioni di produzione di tali dati ovvero alle circostanze e alle modalità in cui essi sono stati costruiti. In ciò consiste la riflessività che contraddistingue l’etnografia post-moderna: essa rappresenta la base della pratica ermeneutica (Marcus, 2000). Lo stile narrativo del resoconto permette di seguire la linea del pensiero e le vicende che hanno segnato il percorso di ricerca: gli sviluppi sono stati spesso notevoli e per nulla pianificati.

Non Disponibile

Saperi e pratiche di prevenzione educativa nei centri diurni per minori e percorsi di preadolescenti figli d'immigrati

MODESTI, Massimo
2008-01-01

Abstract

Non Disponibile
2008
prevenzione educativa; preadolescenti figli d'immigrati
A compimento avvenuto di un lavoro di ricerca, se esso è stato onesto e rigoroso, si assapora sempre il gusto della sorpresa: ciò avviene in misura massima quando la ricerca ha avuto vicissitudini alterne e ha percorso strade scoscese, com’è il caso del presente studio. Tale è la sensazione che mi ha pervaso nel corso della scrittura di questa tesi. È stato come veder germinare improvvisamente, dinanzi ai miei occhi, i semi che avevano riposato a lungo sotto una spessa coltre di terreno. Il tempo della semina era ormai passato e la cura che dedicavo alle piccole creature sepolte nella terra sembrava non dare alcun frutto. Eppure, mano a mano che lavoravo sui dati e scrivevo, qualcosa d’inatteso si preparava a fendere il terreno e ad emergere pian piano. Forma e colore della pianta portavano in sé qualcosa di unico, qualcosa di nuovo, che solo alla fine dell’intero processo ho potuto apprezzare. All’inizio del percorso, non avrei mai immaginato di ritrovarmi fra le mani ciò che oggi riconosco come risultato del mio lavoro. Forse non è l’esito che da principio avevo immaginato d’ottenere, ma è qualcosa che comunque mi sorprende. E ne sono felice. Parte delle ragioni per cui l’esito non corrisponde alle attese iniziali è sospeso al fatto che, nel passaggio dalla progettazione alla ricerca sul campo, l’impianto iniziale ha subito una decisiva virata verso l’etnografia. Altre ragioni, pertengono alla natura stessa dell’approccio etnografico il quale – come scrive Woods – “non sempre è un approccio guidato da specifici obiettivi, con linee sistematicamente programmate sin dall’inizio” (Woods, 2003: 46). Infine, alcune ragioni sono dettate dai limiti che ho incontrato cammin facendo e, quindi, dai necessari adattamenti che ha dovuto subire il piano di lavoro tracciato. In questa ricerca ho inteso esplorare alcuni nodi critici relativi all’impatto di una tipologia di servizi educativi rivolti a “minori a disagio” sui preadolescenti figli d’immigrati e sulle loro famiglie. Impatto inteso sia come innesto di potenziale trasformativo nei percorsi di questi giovani, sia come “riduzione del disagio” che si suppone essi stiano vivendo, sia come riverbero delle rappresentazioni, delle categorie mentali e dei saperi prodotti da educatrici ed educatori sul lavoro di prevenzione. Pratiche e saperi di prevenzione educativa sono l’oggetto sul quale, dopo un lungo percorso, si è concentrato il mio studio. Essi vanno intesi come quel pensare e quell’agire che educatrici ed educatori investono nel loro lavoro con i minori utenti del servizio. Per esplorare tali questioni, ho trovato particolarmente indicato, quale campo di ricerca, un servizio che negli ultimi anni ha avuto un rapido sviluppo nel territorio della città di Verona: il Centro diurno per minori. Sia perché esso annovera esplicitamente fra i suoi obiettivi quello della “prevenzione del disagio”, sia perché, fra i suoi utenti, ha visto crescere progressivamente la presenza dei figli di stranieri, ricongiunti o nati in Italia. Nella media tale presenza si attesta attorno al 50% e in un caso raggiunge il 61% sul totale dei ragazzi che fruiscono del servizio. La ricerca, che si è avvalsa di un approccio di tipo etnografico, è iniziata con l’accostamento alle pratiche mediante il metodo dell’osservazione partecipante in quanto un siffatto studio non poteva prescindere dalla frequentazione prolungata dei Centri diurni per minori. Successivamente, l’affinamento dell’osservazione mi ha condotto a considerare l’importanza dei presupposti epistemici ovvero le teorie da cui muovono le pratiche degli educatori e i saperi dell’esperienza (Jedlowski, 1994) che essi hanno maturato. Nel corso dell’analisi, le categorie semantiche emerse dai discorsi degli educatori hanno subito un lavoro di de-costruzione e di problematizzazione. Se all’inizio avevo assunto acriticamente concetti come quello di disagio e teorie come quella della prevenzione basata sul bilanciamento tra fattori di rischio e fattori protettivi, grazie al dialogo tra pratica di ricerca, riflessione, colloqui di supervisione e studio bibliografico, ho progressivamente acquisito consapevolezza della non neutralità di quei concetti e di quelle teorie. Mi sono accorto, soprattutto, che il fatto di dare per scontato il significato di quei concetti e teorie era un effetto creato dal terreno culturale comune che condividevo con educatrici ed educatori dei Centri diurni, la maggior parte dei quali erano stati – o sono – studenti dello stesso corso di laurea che ho frequentato io. Non bastava, quindi, procedere ad un lavoro di concettualizzazione come suggerisce Bezzi (2003: 225-272), ma è stato necessario scavare al di sotto della superficie e realizzare una fenomenologia dei saperi per cogliere tutte le implicazioni dell’uso di una certo linguaggio e delle relative categorie semantiche. Il lavoro fenomenologico sui concetti di disagio, rischio e prevenzione ha fatto emergere le categorie mentali grazie alle quali i professionisti dell’educazione interpretano le difficoltà delle famiglie immigrate e dei loro figli, e ha rivelato le modalità in cui essi pensano il lavoro educativo. I tentativi di dar risposta alla domanda sulle caratteristiche di tale lavoro e sul suo potenziale trasformativo per i figli d’immigrati, hanno svelato nuove questioni e generato nuove domande: che significato assume una presenza tanto ampia di figli d’immigrati fra gli utenti dei Centri diurni? Attraverso quali percorsi costoro raggiungono tali servizi e ne diventano utenti? Quale apparato concettuale, quali categorie mentali utilizza chi valuta il potenziale rischio di questi ragazzi e ragazze? Quale ruolo assumono i servizi sociali nel delineare i criteri di rischio e, quindi, nel decretare lo stato di necessità di tali minori? Quale consistenza dare all’ipotesi del disagio che sta a monte dell’inserimento nei Centri diurni? Nel corso dello studio ho rivolto un’attenzione particolare non solo alla generazione della teoria, ma anche alla costruzione del metodo grazie al quale evocare i dati. Una parte consistente di tale attenzione è stata dedicata all’autocomprensione epistemica (Mortari, 2007) e allo studio delle condizioni di produzione di tali dati ovvero alle circostanze e alle modalità in cui essi sono stati costruiti. In ciò consiste la riflessività che contraddistingue l’etnografia post-moderna: essa rappresenta la base della pratica ermeneutica (Marcus, 2000). Lo stile narrativo del resoconto permette di seguire la linea del pensiero e le vicende che hanno segnato il percorso di ricerca: gli sviluppi sono stati spesso notevoli e per nulla pianificati.
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Tipologia: Tesi di dottorato
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