Il lavoro – prodotto entro una riflessione interdisciplinare sulla ‘guerra giusta’- inizia con l’analizzare la considerazione di Platone, nel I libro delle Leggi (626e-626a), circa l’esservi sempre, “nella realtà delle cose, per forza di natura”, una guerra dichiarata di ogni Stato contro ogni altro: ma tale realtà conflittuale, subito estesa, qui, ad altri microcosmi (villaggio, famiglia, individuo, anima) segnala la coimplicazione stessa fra pòlemos e dikaiosyne, poiché, fin dai tempi di Eraclito (fr. 53), è il pòlemos, opponendo e però bilanciando i diversi, ad aver funzione ‘morfogenetica’ dell’intero stesso ch’essi costituiscono e della generazione della stessa dikaiosyne. Nel mondo greco antico e secondo letture storiche concordi, sarebbe il conflitto a risolvere, tramite una continua e ridefinita mediazione, problemi d’ordine economico. Così va intesa la definizione tradizionale di giustizia data in apertura della Repubblica (giovare agli amici e danneggiare i nemici, 331d-336a), ripresa della categoria esiodea della “buona contesa” (Erga, 11-26), quella di quanti si misurano lealmente l’uno contro l’altro davanti ad un pubblico, che decreta la vittoria del migliore fra essi. Del resto, per sopravvivere, agli uomini delle origini occorrono, secondo il mito del Protagora (322b-c), non solo il complesso delle arti tecniche, ma anche l’arte politica “di cui è parte la tecnica militare” e i doni di rispetto e giustizia, inviati da Zeus a tutti. Anche le notizie sulla tecnica del combattimento oplitico ribadiscono tale legame fra politica e guerra: Aristotele indica, nella Costituzione degli Ateniesi (IV, 1-2), che la cittadinanza era concessa a chi fosse in grado, coi propri mezzi, di dotarsi di un’armatura da oplita (elmo corinzio, schinieri, corsetto, spada corta, lancia e appunto hòplon, il celebre scudo rotondo del diametro di 1 metro). Vero tutto ciò, si evidenzia però nella Grecia di V secolo una sensibilità a ‘giustificare’ la guerra, sia rispetto all’atto stesso del dichiararla (ius ad bellum), sia rispetto ai modi con cui essa poi è condotta (ius in bello). Nel primo caso, è tradizionalmente ammesso il criterio cosiddetto dell’antipeponthòs (restituzione), secondo Simonide (Resp. 332b-d), Esiodo (fr. 174 Rzach), i Pitagorici (DK 58 B 4) e poi Senofonte (Mem. IV 2, 15) . Ma Platone critica tale nozione negando che la giustizia possa mai servire a danneggiare qualcuno, sia pure un nemico, mentre Aristotele, articolando i vari tipi di giustizia, nega ch’essa sia sempre e solo la restituzione di 1 a 1, poiché occorre distribuire anche secondo il merito (Eth. Nic. VIII 11, 1160a). Anche lo ius in bello (diritto comune non scritto, di fondazione divina o naturale) giunge a graduare l’aggressività: erano dichiarati inviolabili i santuari; i periodi di pace panellenica consacrati agli dèi; il diritto dei vinti a recuperare i caduti; gli ambasciatori ed i vinti supplici. La validità di tali norme è testimoniata proprio dal clamore suscitato dalle corrispondenti violazioni (caso di Ettore, alla fine dell’Iliade; caso di Polinice nell’Antigone, echeggiante l’episodio della battaglia di Delio del 424 a.C; genocidio di Melo da parte degli Ateniesi del 416 a.C.). Così si giustificano del resto le prescrizioni per una ‘guerra giusta’ date da Platone (Resp. 469b-470b). Il tratto più significativo, però, è quello che distingue il pòlemos, ‘giusto’ poiché fonte di conflittualità bilanciata, dalla guerra distruttiva ed intestina (stàsis): questa è l’indebito e indiscriminatamente violento prevalere, l’ adìkos nikàn, di un opposto sull’altro, che però comporta la distruzione dell’intero di cui quelli entrambe sono parti. Si esaminano per giungere a definirne la significatività varie fonti: Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, sul tradizionale operato di Solone nel VI secolo ( Ath. Pol. V 2 e XII 1, 4,5); Platone, nelle Leggi (628a-e) e, già prima, nella Repubblica (469b-470b). Infine è esaminato nel dettaglio, dalle Storie di Tucidide (V, 116, 4 ss.; V 89), il caso del genocidio di Melo, soprattutto le motivazioni addotte, per perpetrarlo, da parte dei potenti e autoritari aggressori Ateniesi (mancanza di una ìse anànche tra un forte ed un debole). I problemi, rispetto al tema della guerra ‘giusta’, paiono, alla fine, due: ritrovare fra i diversi ed opposti in conflitto quella ìse anànche, quell’uguaglianza necessaria che li parifichi quali membri di un medesimo intero; individuare e ricostruire un microcosmo che sia davvero tale per tutte le sue parti e dove l’indebito e violento prevalere di una sulle altre porti alla rovina di tutte e del loro stesso complesso.
Pòlemos e giustizia nella cultura greca: da Solone a Platone
NAPOLITANO, Linda
2003-01-01
Abstract
Il lavoro – prodotto entro una riflessione interdisciplinare sulla ‘guerra giusta’- inizia con l’analizzare la considerazione di Platone, nel I libro delle Leggi (626e-626a), circa l’esservi sempre, “nella realtà delle cose, per forza di natura”, una guerra dichiarata di ogni Stato contro ogni altro: ma tale realtà conflittuale, subito estesa, qui, ad altri microcosmi (villaggio, famiglia, individuo, anima) segnala la coimplicazione stessa fra pòlemos e dikaiosyne, poiché, fin dai tempi di Eraclito (fr. 53), è il pòlemos, opponendo e però bilanciando i diversi, ad aver funzione ‘morfogenetica’ dell’intero stesso ch’essi costituiscono e della generazione della stessa dikaiosyne. Nel mondo greco antico e secondo letture storiche concordi, sarebbe il conflitto a risolvere, tramite una continua e ridefinita mediazione, problemi d’ordine economico. Così va intesa la definizione tradizionale di giustizia data in apertura della Repubblica (giovare agli amici e danneggiare i nemici, 331d-336a), ripresa della categoria esiodea della “buona contesa” (Erga, 11-26), quella di quanti si misurano lealmente l’uno contro l’altro davanti ad un pubblico, che decreta la vittoria del migliore fra essi. Del resto, per sopravvivere, agli uomini delle origini occorrono, secondo il mito del Protagora (322b-c), non solo il complesso delle arti tecniche, ma anche l’arte politica “di cui è parte la tecnica militare” e i doni di rispetto e giustizia, inviati da Zeus a tutti. Anche le notizie sulla tecnica del combattimento oplitico ribadiscono tale legame fra politica e guerra: Aristotele indica, nella Costituzione degli Ateniesi (IV, 1-2), che la cittadinanza era concessa a chi fosse in grado, coi propri mezzi, di dotarsi di un’armatura da oplita (elmo corinzio, schinieri, corsetto, spada corta, lancia e appunto hòplon, il celebre scudo rotondo del diametro di 1 metro). Vero tutto ciò, si evidenzia però nella Grecia di V secolo una sensibilità a ‘giustificare’ la guerra, sia rispetto all’atto stesso del dichiararla (ius ad bellum), sia rispetto ai modi con cui essa poi è condotta (ius in bello). Nel primo caso, è tradizionalmente ammesso il criterio cosiddetto dell’antipeponthòs (restituzione), secondo Simonide (Resp. 332b-d), Esiodo (fr. 174 Rzach), i Pitagorici (DK 58 B 4) e poi Senofonte (Mem. IV 2, 15) . Ma Platone critica tale nozione negando che la giustizia possa mai servire a danneggiare qualcuno, sia pure un nemico, mentre Aristotele, articolando i vari tipi di giustizia, nega ch’essa sia sempre e solo la restituzione di 1 a 1, poiché occorre distribuire anche secondo il merito (Eth. Nic. VIII 11, 1160a). Anche lo ius in bello (diritto comune non scritto, di fondazione divina o naturale) giunge a graduare l’aggressività: erano dichiarati inviolabili i santuari; i periodi di pace panellenica consacrati agli dèi; il diritto dei vinti a recuperare i caduti; gli ambasciatori ed i vinti supplici. La validità di tali norme è testimoniata proprio dal clamore suscitato dalle corrispondenti violazioni (caso di Ettore, alla fine dell’Iliade; caso di Polinice nell’Antigone, echeggiante l’episodio della battaglia di Delio del 424 a.C; genocidio di Melo da parte degli Ateniesi del 416 a.C.). Così si giustificano del resto le prescrizioni per una ‘guerra giusta’ date da Platone (Resp. 469b-470b). Il tratto più significativo, però, è quello che distingue il pòlemos, ‘giusto’ poiché fonte di conflittualità bilanciata, dalla guerra distruttiva ed intestina (stàsis): questa è l’indebito e indiscriminatamente violento prevalere, l’ adìkos nikàn, di un opposto sull’altro, che però comporta la distruzione dell’intero di cui quelli entrambe sono parti. Si esaminano per giungere a definirne la significatività varie fonti: Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, sul tradizionale operato di Solone nel VI secolo ( Ath. Pol. V 2 e XII 1, 4,5); Platone, nelle Leggi (628a-e) e, già prima, nella Repubblica (469b-470b). Infine è esaminato nel dettaglio, dalle Storie di Tucidide (V, 116, 4 ss.; V 89), il caso del genocidio di Melo, soprattutto le motivazioni addotte, per perpetrarlo, da parte dei potenti e autoritari aggressori Ateniesi (mancanza di una ìse anànche tra un forte ed un debole). I problemi, rispetto al tema della guerra ‘giusta’, paiono, alla fine, due: ritrovare fra i diversi ed opposti in conflitto quella ìse anànche, quell’uguaglianza necessaria che li parifichi quali membri di un medesimo intero; individuare e ricostruire un microcosmo che sia davvero tale per tutte le sue parti e dove l’indebito e violento prevalere di una sulle altre porti alla rovina di tutte e del loro stesso complesso.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.