Nel suo celebre studio sul tragico, Peter Szondi rintracciava nella storia della riflessione filosofica su questo concetto un’unica costante, la dialettica, e osservava che “non esiste il tragico, almeno come essenza”, ma “una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie” ed è “quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento nel suo contrario, dall’autoscissione” (Saggio sul tragico, 1961). In Tre furori, Starobinski aggiungeva: “la tragedia, basandosi sulla sostanza piatta del mito, inventa una poesia della retrospezione e della decisione che segna contemporaneamente l’avvento di una interiorità sofferente” (1974). Partendo da queste due brevi considerazioni inerenti al concetto di dialettica negativa e di interiorità sofferente, questo capitolo esaminerà alcuni esempi di come Shakespeare inauguri una interpretazione già moderna dell’esperienza tragica come esperienza individuale di una situazione limite nella quale l’io è chiamato a operare una scelta che si rivelerà per lui negativa, nel quadro di una temporalità lineare che non ammette risarcimenti, ma ha come unico orizzonte la fine. La dialettica tra essere e non essere nel monologo di Amleto, interrogazione ultima su una alternativa che implica, a catena, quelle tra essere e apparire, agire e non agire, costituisce il nucleo fondante di questo tragico protomoderno legato all’interrogazione dell’io e sull’io. Nell’atto stesso di porre la domanda, questi apre alla propria costruzione come soggetto etico, responsabile del proprio “fare”, ma anche alla sua stessa potenziale decostruzione se incapace di operare una scelta, o se fautore della risultanza negativa della dialettica. I primi quattro atti di questo dramma, fino al momento dell’ingresso di “Amleto il danese” nell’universo epico dell’azione nella prospettiva cristiana della provvidenza divina, rappresentano appunto la dimensione della dialettica colta in una fase di ipertrofica impasse (Bigliazzi, Oltre il genere. Amleto tra scena e racconto, 2001). Nessun’altra tragedia shakespeariana drammatizza allo stesso modo il senso tragico di questa dialettica come modello di un essere al mondo vissuto nella soggettività sofferente dell’eroe. Muovendo dalla discussione di questo tema in Amleto, il capitolo discute alcuni celebri esempi shakespeariani, da Macbeth a Otello. Il saggio sostiene che la ricezione della catarsi nella prima età moderna è connessa a una reinterpretazione del tragico in relazione a un ripensamento del concetto di colpa in transizione fra determinismo e libero arbitrio. Questa nozione, instabile all’epoca, porta il teatro a riflettere su se stesso, sull’identità del soggetto (il personaggio) e l’attore, oltre che sulla vita attraverso un ripensamento di se stesso come gioco e del ruolo della soggettività tragica in esso coinvolta.

“Verso una catarsi impossibile: l’io nelle tragedie”

Silvia Bigliazzi
2024-01-01

Abstract

Nel suo celebre studio sul tragico, Peter Szondi rintracciava nella storia della riflessione filosofica su questo concetto un’unica costante, la dialettica, e osservava che “non esiste il tragico, almeno come essenza”, ma “una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie” ed è “quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento nel suo contrario, dall’autoscissione” (Saggio sul tragico, 1961). In Tre furori, Starobinski aggiungeva: “la tragedia, basandosi sulla sostanza piatta del mito, inventa una poesia della retrospezione e della decisione che segna contemporaneamente l’avvento di una interiorità sofferente” (1974). Partendo da queste due brevi considerazioni inerenti al concetto di dialettica negativa e di interiorità sofferente, questo capitolo esaminerà alcuni esempi di come Shakespeare inauguri una interpretazione già moderna dell’esperienza tragica come esperienza individuale di una situazione limite nella quale l’io è chiamato a operare una scelta che si rivelerà per lui negativa, nel quadro di una temporalità lineare che non ammette risarcimenti, ma ha come unico orizzonte la fine. La dialettica tra essere e non essere nel monologo di Amleto, interrogazione ultima su una alternativa che implica, a catena, quelle tra essere e apparire, agire e non agire, costituisce il nucleo fondante di questo tragico protomoderno legato all’interrogazione dell’io e sull’io. Nell’atto stesso di porre la domanda, questi apre alla propria costruzione come soggetto etico, responsabile del proprio “fare”, ma anche alla sua stessa potenziale decostruzione se incapace di operare una scelta, o se fautore della risultanza negativa della dialettica. I primi quattro atti di questo dramma, fino al momento dell’ingresso di “Amleto il danese” nell’universo epico dell’azione nella prospettiva cristiana della provvidenza divina, rappresentano appunto la dimensione della dialettica colta in una fase di ipertrofica impasse (Bigliazzi, Oltre il genere. Amleto tra scena e racconto, 2001). Nessun’altra tragedia shakespeariana drammatizza allo stesso modo il senso tragico di questa dialettica come modello di un essere al mondo vissuto nella soggettività sofferente dell’eroe. Muovendo dalla discussione di questo tema in Amleto, il capitolo discute alcuni celebri esempi shakespeariani, da Macbeth a Otello. Il saggio sostiene che la ricezione della catarsi nella prima età moderna è connessa a una reinterpretazione del tragico in relazione a un ripensamento del concetto di colpa in transizione fra determinismo e libero arbitrio. Questa nozione, instabile all’epoca, porta il teatro a riflettere su se stesso, sull’identità del soggetto (il personaggio) e l’attore, oltre che sulla vita attraverso un ripensamento di se stesso come gioco e del ruolo della soggettività tragica in esso coinvolta.
2024
9788829025404
William Shakespeare
Amleto
Macbeth
Otello
catarsi
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/1131706
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