Nel mondo antico il dibattito intorno alle leggi non scritte (agraphoi nomoi) viene a intensificarsi tra il V e il IV secolo a.C. A partire da Sofocle, passando per Tucidide, fino a giungere alle riflessioni attribuite a Socrate da Platone e Senofonte, la questione delle leggi non scritte assume un’importanza fondamentale per cogliere alcune specificità del rapporto intrattenuto dai Greci con i rispettivi ordinamenti giuridici. Le leggi non scritte non appartengono al diritto positivo, ma vi si sovrappongono o vi si contrappongono. Costituiscono una provocazione e una sfida all’ordinamento giuridico tradizionale, dato che non sono esplicitamente codificate pur possedendo una validità assoluta. La concezione delle leggi non scritte si ritrova, per la prima volta nel mondo greco, nell’Antigone di Sofocle (450-472). Il passo propone una contrapposizione tra due nozioni di nomos reciprocamente inconciliabili. I due protagonisti della tragedia, Creonte e Antigone, danno luogo ad un agone: da un lato il nomos scritto di Creonte, un editto promulgato da un uomo che pretende di valere per tutti i cittadini di Tebe a prescindere dal loro censo e dal loro lignaggio; dall’altro il nomos non scritto di Antigone, il quale fa invece riferimento a un’universalità di carattere sovrumano: vale infatti sia per gli dei celesti sia per quelli inferi, e non vi è luogo in cui non abbia validità. In un celebre discorso riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso di Tucidide (2.37.2-3) è Pericle a parlare di leggi non scritte, questa volta facendo esplicito riferimento al loro pendant, le leggi scritte. Pericle presenta le leggi non scritte non come alternative alle leggi della città, ma come complementari: mentre i nomoi scritti servono a tutelare coloro che subiscono un’ingiustizia, i nomoi non scritti suscitano un sentimento di “vergogna condivisa” in coloro che si macchiano di atti contrari alla morale. Tale concezione trova conferma in un passo di Pseudo-Lisia dal quale si evince come nell’Atene periclea le leggi non scritte trovino applicazione in ambito sia civile sia religioso (Contro Andocide 6.10). In un passo di Andocide si parla di un categorico divieto di applicare la legge non scritta ai casi codificati dalla legge scritta (1.84-85), probabilmente in seguito a una norma introdotta nel diritto attico nel 403. Il brano è particolarmente significativo, poiché permette di constatare come già alla fine del quinto secolo la nozione di agraphos nomos venga relegata ai margini del diritto attico. Questa circostanza è di particolare rilievo se si pensa al ruolo che le leggi scritte e non scritte vengono ad assumere nei molteplici processi di cittadini illustri, alcuni facenti parte della cerchia di Pericle, che caratterizzano la vita pubblica di Atene nella seconda metà del V secolo. Proprio all’inizio del IV secolo tale sequela di processi trova il suo apice nella condanna di Socrate, il massimo rappresentante della vita intellettuale ateniese dell’epoca. Al pari di Anassagora e Protagora, Socrate viene condannato in base alla legge codificata per iscritto, ma verosimilmente anche per motivazioni di carattere politico. La sua posizione nei confronti dei nomoi cittadini appare caratterizzata da una profonda complessità: il Socrate platonico dimostra la sua indipendenza nei confronti sia della fazione democratica della sua città (in occasione del processo delle Arginuse: Apol. 32a) sia di quella oligarchica (quando i Trenta gli ordinano di arrestare Leonte di Salamina: Apol. 32b-c; Epist. VII 324e). La sua disobbedienza civile sembra tuttavia configurarsi in senso opposto alla sua scelta di rispettare le leggi della sua città a costo della sua stessa vita (Platone, Crit. 50a-c), nella consapevolezza che in nessuna circostanza un uomo virtuoso può essere danneggiato da chi gli è inferiore (Apol. 30c-d; 41c-d). Senofonte attribuisce a Socrate una teoria degli agraphoi nomoi simile a quella di Sofocle, ma più articolata: a caratterizzare le leggi non scritte è, come nell’Antigone, il carattere divino, che in Senofonte trova espressione nell’ineluttabilità del castigo in cui incorrono coloro che le infrangono (Mem. 4.4.19-24). Non si tratta di leggi coercitive,poiché esprimono una giustizia che non è insita negli uomini, bensì nelle cose stesse (cfr. Oec. 7.31). Una simile concezione del diritto si configura come pura immediatezza, diretta coincidenza tra ciò che la legge “prescrive” e la sua “applicazione” punitiva. La fiducia incondizionata nelle leggi non scritte, la loro capacità di regolare le azioni degli uomini senza ricorrere a strumenti coercitivi, è dunque la cifra della concezione del Socrate di Senofonte, le cui origini affondano le radici nell’Antigone sofoclea. A farle eco è la fiducia altrettanto incrollabile del Socrate di Platone nei confronti delle leggi scritte della città di Atene, la quale si accompagna ad una solida fiducia in una giustizia superiore a quella decretata dal Tribunale degli Eliasti. Tale duplice fiducia sembra però scontrarsi con la radicale indipendenza di Socrate dal potere costituito, attestata peraltro non soltanto in Platone, ma anche in Andocide (1.94), Lisia (12.52; 13.44) e Senofonte (Mem. 1.1.18, 1.2.31, 4.4.3; Hell. 1.7.1-35, 2.11-39). Il presente intervento tenterà di far luce su queste apparenti incongruenze, interpretandole alla luce del dibattito intorno agli agraphoi nomoi sviluppatosi a partire dal V secolo.

Gli agraphoi nomoi da Sofocle a Senofonte

Stavru alessandro
2021-01-01

Abstract

Nel mondo antico il dibattito intorno alle leggi non scritte (agraphoi nomoi) viene a intensificarsi tra il V e il IV secolo a.C. A partire da Sofocle, passando per Tucidide, fino a giungere alle riflessioni attribuite a Socrate da Platone e Senofonte, la questione delle leggi non scritte assume un’importanza fondamentale per cogliere alcune specificità del rapporto intrattenuto dai Greci con i rispettivi ordinamenti giuridici. Le leggi non scritte non appartengono al diritto positivo, ma vi si sovrappongono o vi si contrappongono. Costituiscono una provocazione e una sfida all’ordinamento giuridico tradizionale, dato che non sono esplicitamente codificate pur possedendo una validità assoluta. La concezione delle leggi non scritte si ritrova, per la prima volta nel mondo greco, nell’Antigone di Sofocle (450-472). Il passo propone una contrapposizione tra due nozioni di nomos reciprocamente inconciliabili. I due protagonisti della tragedia, Creonte e Antigone, danno luogo ad un agone: da un lato il nomos scritto di Creonte, un editto promulgato da un uomo che pretende di valere per tutti i cittadini di Tebe a prescindere dal loro censo e dal loro lignaggio; dall’altro il nomos non scritto di Antigone, il quale fa invece riferimento a un’universalità di carattere sovrumano: vale infatti sia per gli dei celesti sia per quelli inferi, e non vi è luogo in cui non abbia validità. In un celebre discorso riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso di Tucidide (2.37.2-3) è Pericle a parlare di leggi non scritte, questa volta facendo esplicito riferimento al loro pendant, le leggi scritte. Pericle presenta le leggi non scritte non come alternative alle leggi della città, ma come complementari: mentre i nomoi scritti servono a tutelare coloro che subiscono un’ingiustizia, i nomoi non scritti suscitano un sentimento di “vergogna condivisa” in coloro che si macchiano di atti contrari alla morale. Tale concezione trova conferma in un passo di Pseudo-Lisia dal quale si evince come nell’Atene periclea le leggi non scritte trovino applicazione in ambito sia civile sia religioso (Contro Andocide 6.10). In un passo di Andocide si parla di un categorico divieto di applicare la legge non scritta ai casi codificati dalla legge scritta (1.84-85), probabilmente in seguito a una norma introdotta nel diritto attico nel 403. Il brano è particolarmente significativo, poiché permette di constatare come già alla fine del quinto secolo la nozione di agraphos nomos venga relegata ai margini del diritto attico. Questa circostanza è di particolare rilievo se si pensa al ruolo che le leggi scritte e non scritte vengono ad assumere nei molteplici processi di cittadini illustri, alcuni facenti parte della cerchia di Pericle, che caratterizzano la vita pubblica di Atene nella seconda metà del V secolo. Proprio all’inizio del IV secolo tale sequela di processi trova il suo apice nella condanna di Socrate, il massimo rappresentante della vita intellettuale ateniese dell’epoca. Al pari di Anassagora e Protagora, Socrate viene condannato in base alla legge codificata per iscritto, ma verosimilmente anche per motivazioni di carattere politico. La sua posizione nei confronti dei nomoi cittadini appare caratterizzata da una profonda complessità: il Socrate platonico dimostra la sua indipendenza nei confronti sia della fazione democratica della sua città (in occasione del processo delle Arginuse: Apol. 32a) sia di quella oligarchica (quando i Trenta gli ordinano di arrestare Leonte di Salamina: Apol. 32b-c; Epist. VII 324e). La sua disobbedienza civile sembra tuttavia configurarsi in senso opposto alla sua scelta di rispettare le leggi della sua città a costo della sua stessa vita (Platone, Crit. 50a-c), nella consapevolezza che in nessuna circostanza un uomo virtuoso può essere danneggiato da chi gli è inferiore (Apol. 30c-d; 41c-d). Senofonte attribuisce a Socrate una teoria degli agraphoi nomoi simile a quella di Sofocle, ma più articolata: a caratterizzare le leggi non scritte è, come nell’Antigone, il carattere divino, che in Senofonte trova espressione nell’ineluttabilità del castigo in cui incorrono coloro che le infrangono (Mem. 4.4.19-24). Non si tratta di leggi coercitive,poiché esprimono una giustizia che non è insita negli uomini, bensì nelle cose stesse (cfr. Oec. 7.31). Una simile concezione del diritto si configura come pura immediatezza, diretta coincidenza tra ciò che la legge “prescrive” e la sua “applicazione” punitiva. La fiducia incondizionata nelle leggi non scritte, la loro capacità di regolare le azioni degli uomini senza ricorrere a strumenti coercitivi, è dunque la cifra della concezione del Socrate di Senofonte, le cui origini affondano le radici nell’Antigone sofoclea. A farle eco è la fiducia altrettanto incrollabile del Socrate di Platone nei confronti delle leggi scritte della città di Atene, la quale si accompagna ad una solida fiducia in una giustizia superiore a quella decretata dal Tribunale degli Eliasti. Tale duplice fiducia sembra però scontrarsi con la radicale indipendenza di Socrate dal potere costituito, attestata peraltro non soltanto in Platone, ma anche in Andocide (1.94), Lisia (12.52; 13.44) e Senofonte (Mem. 1.1.18, 1.2.31, 4.4.3; Hell. 1.7.1-35, 2.11-39). Il presente intervento tenterà di far luce su queste apparenti incongruenze, interpretandole alla luce del dibattito intorno agli agraphoi nomoi sviluppatosi a partire dal V secolo.
2021
Leggi non scritte, Sofocle, Antigone, Pericle, Tucidide, Socrate, Senofonte
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/1092532
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