Il saggio «Con voce altrui»: l’intertesto francese in Primo Levi di Rosanna Gorris Camos mette in luce la densità dell’intertesto leviano in cui, come in una foresta, si affacciano, si incrociano autori francesi da lui letti e studiati lungo tutta la sua esistenza. Si tratta di riferimenti più o meno criptati, fatti per essere scoperti «con selvaggia pazienza» (A. Cavaglion): accanto al «metallo Dante», si analizza la presenza della «gemma Baudelaire», dell’amatissimo «Maestro» Rabelais, ma anche di Montaigne, Vercors, oltre che di Queneau, Calvino e Dostoevskij. Se questo è un uomo, lungi dal limitarsi ad essere un’opera di testimonianza, scritta a caldo, senza alcuna attenzione alla forma e alla struttura letterarie, come a lungo si è creduto, si dimostra «un’opera piena di letteratura» (P. Levi). La parola dell’altro viene utilizzata da Levi per dare voce a chi non ce l’ha più, come tanti dibbuk che utilizzano le armi della notte, per far rivivere i morti, attraverso un alfabeto che, come il Bereshit, dà avvio alla creazione di un mondo altro, quasi impossibile da dire, da evocare, popolato da ombre e da assenze. Dalla saggezza di Montaigne alla parodia di Rabelais, dai neri cristalli dei Fiori del Male alle zone grigie delle Armi della notte di Vercors, tutte queste voci altre contribuiscono a fare dell’opera leviana una testimonianza unica e universale. Gli autori francesi sono per lui Maestri, non solo dell’arte di scrivere, di un lessico, di una poetica della citazione, di un «sistema parodico» che intreccia imitazione e parodia, ma anche utilizzo e deviazione della parola altrui per riuscire a dire l’indicibile attraverso la voce dell’«altro che è in noi» (F. Orlando).
"Con voce altrui": l'intertesto francese in Primo Levi
gorris
2022-01-01
Abstract
Il saggio «Con voce altrui»: l’intertesto francese in Primo Levi di Rosanna Gorris Camos mette in luce la densità dell’intertesto leviano in cui, come in una foresta, si affacciano, si incrociano autori francesi da lui letti e studiati lungo tutta la sua esistenza. Si tratta di riferimenti più o meno criptati, fatti per essere scoperti «con selvaggia pazienza» (A. Cavaglion): accanto al «metallo Dante», si analizza la presenza della «gemma Baudelaire», dell’amatissimo «Maestro» Rabelais, ma anche di Montaigne, Vercors, oltre che di Queneau, Calvino e Dostoevskij. Se questo è un uomo, lungi dal limitarsi ad essere un’opera di testimonianza, scritta a caldo, senza alcuna attenzione alla forma e alla struttura letterarie, come a lungo si è creduto, si dimostra «un’opera piena di letteratura» (P. Levi). La parola dell’altro viene utilizzata da Levi per dare voce a chi non ce l’ha più, come tanti dibbuk che utilizzano le armi della notte, per far rivivere i morti, attraverso un alfabeto che, come il Bereshit, dà avvio alla creazione di un mondo altro, quasi impossibile da dire, da evocare, popolato da ombre e da assenze. Dalla saggezza di Montaigne alla parodia di Rabelais, dai neri cristalli dei Fiori del Male alle zone grigie delle Armi della notte di Vercors, tutte queste voci altre contribuiscono a fare dell’opera leviana una testimonianza unica e universale. Gli autori francesi sono per lui Maestri, non solo dell’arte di scrivere, di un lessico, di una poetica della citazione, di un «sistema parodico» che intreccia imitazione e parodia, ma anche utilizzo e deviazione della parola altrui per riuscire a dire l’indicibile attraverso la voce dell’«altro che è in noi» (F. Orlando).File | Dimensione | Formato | |
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