Si ridiscute il classico tema del coraggio in Platone, spesso trattato dalla critica, soprattutto nella prospettiva – qui perciò solo ricordata, ma non ripresa – del suo rapporto con la virtù come intero. Il campo semantico e concettuale di questa virtù cardinale è sì basilare, poiché la si declina già con forza ed ampiezza nei poemi omerici, ma instabile: perciò, per Platone, “ri-definire <il coraggio> vuol dire chiarire la radice soggettiva di questa virtù, fra naturalità ed educabilità, emozionalità e ragionamento; ampliarne l'ambito di applicazione, dalla guerra alla pace e a contesti individuali come sociali; specificarne il livello di prestazione, fra semplice disposizione naturale, opinione vera e scienza; indicarne e strutturarne, per ogni livello, i tramiti, di nuovo individuali e sociali, teorici e pratici, di acquisizione e miglioramento; ancora, definirne il campo specifico di competenza rispetto alle altre virtù. Un lavoro non semplice, condotto con costante cura dal giovanile Lachete fino alle Leggi”. Già in Tucidide il coraggio è giocato fra audacia e tecnica, fra impulso e sapere; anche il dialogo platonico giovanile Lachete problematizza questa virtù, chiedendo quale tipo di conoscenza essa inglobi, se le bastino competenze solo tecniche, oppure se implichi una conoscenza di grado più alto, quella per cui essa è “una certa sapienza” (194e9), tratto che però, obietta Socrate, pare opacizzarla nella coincidenza con la virtù quale intero. “Dunque non solo il coraggio e in generale il sapere che nel Lachete si cerca quale forma della cura dell'anima va imparato teoricamente (màthema) e praticato come un'attività (epitèdeuma), ma chi accampi tale sapere sarà valutato non dai discorsi che pronuncia, bensì dalle azioni che compie e dalle concrete testimonianze di effettive trasformazioni indotte (èrga) anche in altri dal suo sapere”. La definizione della Repubblica (capacità di salvaguardare in ogni occasione l’opinione acquisita sul temibile e non temibile, 429b-c) è specificata con l’attribuzione di tale virtù nella città alla sola ‘classe’ dei guerrieri e nell’anima alla ‘parte’ thymoeidès: l’intellettualismo che pare caratterizzarla è edulcorato dal tratto che implica la capacità di mantenere tale opinione, pur eterodiretta e pedagogicamente indotta, dunque una qualche ‘resistenza’ (karterìa) simile a quella che Socrate attribuiva ad Achille nell’Apologia (28b-d). L’anima va poco a poco ‘imbevuta’ di tale opinione, come si fa con le lane, previamente da sbiancarsi per tingerle di nuovi colori indelebili (Resp. 430a-b); anche l’anima va anzitutto resa ‘inattaccabile’ all’azione di quei detergenti aggressivi che sono paure e desideri, piaceri e dolori. Tale coraggio è definito come “politico” (Resp. 430a-c). In effetti la tesi che il coraggio non solo abbia a che fare con le paure, ma sia anche ‘resistenza’ a piaceri e desideri torna spesso nei dialoghi: nel Lachete (191d-e), nel Gorgia (507b), nella Repubblica (429c-d), nelle Leggi (633c-d) e rimodula un motivo presente forse già in Omero (è analizzato in particolare l’episodio della resistenza – metaforicamente eterodiretta – di Odisseo al canto delle Sirene). Si affronta poi su tali basi il coraggio com’è presentato in Leg. I: a fronte di un’apparente restrizione della più quotata delle eccellenze omeriche, che, qui, fra le cardinali, è indicata invece solo come quarta e più insignificante virtù, va ricordato il contesto della discussione, dove il pòlemos è considerato realtà trasversalmente estesa agli Stati, alle famiglie, agli individui e alla stessa interiorità individuale e dove il problema è che esso non degeneri nella guerra distruttiva intestina, la stàsis. Occorre dunque saper “vincere se stessi”, mentre sarebbe indegno soccombere alla propria parte peggiore (l’epithymetikòn), una vittoria che, per le città, rientrerebbe non tanto “nel campo dei valori, ma in quello delle necessità” (Leg. 628c-d). Sarà dunque lo Stato a doversi assumere un onere educativo in tale direzione, attraverso le leggi stesse, capaci, esse sole, di garantire la piena felicità: è nell’ordine da esse assicurato che il coraggio è ri-qualificato nella proposta di una virtù articolata e globale. Occorrerà dunque imparare ciò che non va temuto (l’aggressione dei nemici) e ciò che, invece, più va temuto (l’essere sconfessati davanti ai propri amici). Ma, di più e più precisamente, occorrerà esperire il sentimento di vergogna che tale caso moralmente negativo induce: sarà nei simposi programmati e nell’assunzione controllata del vino capace d’indurre spudoratezza (anaidèia), che si potrà esercitarsi a ‘resistere’ al piacere della sfrenatezza. Le leggi coi loro proemi indicheranno che si deve esser coraggiosi (=resistenti alle passioni), mentre i simposi faranno esperire il mezzo e il sentimento che induce ad esserlo, indicheranno come farlo e abitueranno a farlo. Ci si può ben chiedere che ne sia, a questo punto, dell’intellettualismo tradizionalmente ascritto a Platone.

Il coraggio in Platone. Cammini nuovi di un'antica virtù nel I libro delle 'Leggi'?

NAPOLITANO, Linda
2012-01-01

Abstract

Si ridiscute il classico tema del coraggio in Platone, spesso trattato dalla critica, soprattutto nella prospettiva – qui perciò solo ricordata, ma non ripresa – del suo rapporto con la virtù come intero. Il campo semantico e concettuale di questa virtù cardinale è sì basilare, poiché la si declina già con forza ed ampiezza nei poemi omerici, ma instabile: perciò, per Platone, “ri-definire vuol dire chiarire la radice soggettiva di questa virtù, fra naturalità ed educabilità, emozionalità e ragionamento; ampliarne l'ambito di applicazione, dalla guerra alla pace e a contesti individuali come sociali; specificarne il livello di prestazione, fra semplice disposizione naturale, opinione vera e scienza; indicarne e strutturarne, per ogni livello, i tramiti, di nuovo individuali e sociali, teorici e pratici, di acquisizione e miglioramento; ancora, definirne il campo specifico di competenza rispetto alle altre virtù. Un lavoro non semplice, condotto con costante cura dal giovanile Lachete fino alle Leggi”. Già in Tucidide il coraggio è giocato fra audacia e tecnica, fra impulso e sapere; anche il dialogo platonico giovanile Lachete problematizza questa virtù, chiedendo quale tipo di conoscenza essa inglobi, se le bastino competenze solo tecniche, oppure se implichi una conoscenza di grado più alto, quella per cui essa è “una certa sapienza” (194e9), tratto che però, obietta Socrate, pare opacizzarla nella coincidenza con la virtù quale intero. “Dunque non solo il coraggio e in generale il sapere che nel Lachete si cerca quale forma della cura dell'anima va imparato teoricamente (màthema) e praticato come un'attività (epitèdeuma), ma chi accampi tale sapere sarà valutato non dai discorsi che pronuncia, bensì dalle azioni che compie e dalle concrete testimonianze di effettive trasformazioni indotte (èrga) anche in altri dal suo sapere”. La definizione della Repubblica (capacità di salvaguardare in ogni occasione l’opinione acquisita sul temibile e non temibile, 429b-c) è specificata con l’attribuzione di tale virtù nella città alla sola ‘classe’ dei guerrieri e nell’anima alla ‘parte’ thymoeidès: l’intellettualismo che pare caratterizzarla è edulcorato dal tratto che implica la capacità di mantenere tale opinione, pur eterodiretta e pedagogicamente indotta, dunque una qualche ‘resistenza’ (karterìa) simile a quella che Socrate attribuiva ad Achille nell’Apologia (28b-d). L’anima va poco a poco ‘imbevuta’ di tale opinione, come si fa con le lane, previamente da sbiancarsi per tingerle di nuovi colori indelebili (Resp. 430a-b); anche l’anima va anzitutto resa ‘inattaccabile’ all’azione di quei detergenti aggressivi che sono paure e desideri, piaceri e dolori. Tale coraggio è definito come “politico” (Resp. 430a-c). In effetti la tesi che il coraggio non solo abbia a che fare con le paure, ma sia anche ‘resistenza’ a piaceri e desideri torna spesso nei dialoghi: nel Lachete (191d-e), nel Gorgia (507b), nella Repubblica (429c-d), nelle Leggi (633c-d) e rimodula un motivo presente forse già in Omero (è analizzato in particolare l’episodio della resistenza – metaforicamente eterodiretta – di Odisseo al canto delle Sirene). Si affronta poi su tali basi il coraggio com’è presentato in Leg. I: a fronte di un’apparente restrizione della più quotata delle eccellenze omeriche, che, qui, fra le cardinali, è indicata invece solo come quarta e più insignificante virtù, va ricordato il contesto della discussione, dove il pòlemos è considerato realtà trasversalmente estesa agli Stati, alle famiglie, agli individui e alla stessa interiorità individuale e dove il problema è che esso non degeneri nella guerra distruttiva intestina, la stàsis. Occorre dunque saper “vincere se stessi”, mentre sarebbe indegno soccombere alla propria parte peggiore (l’epithymetikòn), una vittoria che, per le città, rientrerebbe non tanto “nel campo dei valori, ma in quello delle necessità” (Leg. 628c-d). Sarà dunque lo Stato a doversi assumere un onere educativo in tale direzione, attraverso le leggi stesse, capaci, esse sole, di garantire la piena felicità: è nell’ordine da esse assicurato che il coraggio è ri-qualificato nella proposta di una virtù articolata e globale. Occorrerà dunque imparare ciò che non va temuto (l’aggressione dei nemici) e ciò che, invece, più va temuto (l’essere sconfessati davanti ai propri amici). Ma, di più e più precisamente, occorrerà esperire il sentimento di vergogna che tale caso moralmente negativo induce: sarà nei simposi programmati e nell’assunzione controllata del vino capace d’indurre spudoratezza (anaidèia), che si potrà esercitarsi a ‘resistere’ al piacere della sfrenatezza. Le leggi coi loro proemi indicheranno che si deve esser coraggiosi (=resistenti alle passioni), mentre i simposi faranno esperire il mezzo e il sentimento che induce ad esserlo, indicheranno come farlo e abitueranno a farlo. Ci si può ben chiedere che ne sia, a questo punto, dell’intellettualismo tradizionalmente ascritto a Platone.
2012
9788876992322
Platone; coraggio; Leggi
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/472359
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