La recente perdita di competitività delle imprese italiane ci spinge a considerare, tra le altre cause, anche l’eventuale presenza di vincoli finanziari agli investimenti e in particolare a quelli in R&S. La realizzazione dei progetti di investimento è strettamente correlata alle risorse finanziarie di cui l’impresa dispone o sarà in grado di disporre attraverso un’adeguata politica di finanziamento volta alla ricerca della composizione migliore della propria struttura finanziaria. La letteratura sulle scelte di struttura finanziaria concorda sul fatto che in presenza di imperfezioni nei mercati dei capitali non esiste perfetta sostituibilità tra le fonti finanziarie interne e quelle esterne. Un’impresa è, allora, sottoposta a vincoli finanziari quando è costretta a rinunciare all’esecuzione di progetti di investimento che, seppur profittevoli, non è in grado di finanziare. Esistono numerose evidenze empiriche che mostrano che alcune imprese sono finanziariamente vincolate quando decidono di effettuare investimenti in capitale fisico (tra gli altri Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) e (1996), Bond e Meghir (1994), Bond, Elston, Mairesse e Mulkay (2003)). Molto meno studiato è il problema degli investimenti in Ricerca e Sviluppo (tra gli altri Harhoff (1998), Bond S., Harhoff D., Van Reenen J. (1999)) sebbene alcune caratteristiche di questi ultimi lascino pensare che è molto più probabile osservare vincoli finanziari agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) piuttosto che agli investimenti in capitale fisico. Nonostante l’importanza del fenomeno, finora le evidenze empiriche sulla presenza di vincoli finanziari agli investimenti delle imprese manifatturiere italiane sono state poche e hanno riguardato prevalentemente gli investimenti in capitale fisico (Rondi e Sembenelli 1998). Non è dunque priva di giustificazioni l’idea di voler testare l’eventuale presenza di vincoli finanziari agli investimenti delle imprese manifatturiere italiane, prestando particolare attenzione al caso delle spese in R&S. Il capitolo 1 propone la stima dei vincoli finanziari agli investimenti in capitale fisico e in ricerca e sviluppo, utilizzando l’approccio maggiormente condiviso in letteratura. È oramai convinzione diffusa che per rilanciare la competitività delle imprese italiane sia necessario partire dal rilancio della crescita dimensionale e di strutture proprietarie meno concentrate, dell’innovazione tecnologica, dell’internazionalizzazione e da un miglior rapporto con il sistema finanziario. La crescita economica non può prescindere, infatti, dal progresso del sistema finanziario in generale e del mercato borsistico in particolare. La letteratura economica ha evidenziato l’esistenza di una solida relazione tra lo sviluppo economico e il progresso del sistema finanziario. Un sistema finanziario evoluto favorisce una crescita robusta e sostenibile del risparmio, favorendo il processo di selezione delle eccellenze imprenditoriali e degli investimenti e offrendo nuove modalità di gestione dei rischi. In una prospettiva ancora più ampia, il sistema finanziario è uno strumento vitale per realizzare un sistema economico e una società più aperti, dinamici ed equi. In particolare, la quotazione in Borsa consente alle imprese il finanziamento di nuovi investimenti, imprime impulso alla crescita dimensionale e riequilibra la struttura finanziaria ottimizzando il costo del finanziamento. Sebbene lo scarso ricorso al finanziamento azionario non sia una prerogativa delle imprese italiane, l’Italia si caratterizza per il fatto di avere un ridotto numero di società domestiche quotate. Per anni il motivo della scarsa partecipazione al mercato azionario delle imprese italiane è stato attribuito alla riluttanza degli imprenditori all’apertura del capitale e alla “condivisione” con il mercato dell’azienda, tipicamente di famiglia. Inoltre la quotazione in borsa veniva vista (e in parte accade tuttora) come un’operazione di finanza straordinaria destinata alle grandi imprese. Il capitolo 2 vuole indagare se il ridotto numero di società italiane quotate dipende da un limitato numero di società quotabili o piuttosto da una eccessiva complessità del mercato azionario italiano. La Initial Public Offering (IPO) rappresenta uno dei passi più importanti nella vita di un’impresa non solo per il fatto che le somme ottenute consentono il finanziamento di importanti progetti di investimento che possono determinare un vero e proprio salto dimensionale e culturale, ma anche per le importanti conseguenze gestionali. Oltre alle accortezze a tutela delle minoranze, una delle conseguenze di maggiore impatto nella vita aziendale e, per un certo verso, persino nella vita dell’imprenditore stesso è la gestione del cambio dell’azionariato conseguente al collocamento delle azioni. Nel vendere le azioni della propria società, l’imprenditore potrebbe dunque poter accettare un prezzo più basso rispetto al fair value, pur di riuscire ad evitare che nella compagine azionaria vi siano degli investitori sgraditi, o relativamente sgraditi. Una parte degli accademici che studiano il fenomeno delle IPO, si interroga sulla possibilità da parte dell’emittente di poter plasmare la composizione dell’azionariato post-IPO e, in particolare, alcuni articoli hanno cercato di indagare il ruolo dell’underpricing nel raggiungimento della compagine azionaria desiderata. L’underpricing è solitamente spiegato in letteratura come fenomeno derivante dall’asimmetria informativa esistente tra l’emittente e gli investitori in merito al valore dell’azienda e al rischio intrinseco aziendale. Tali teorie assumono che l’emittente possiede un set informativo più completo rispetto a quello posseduto dagli investitori e che pertanto l’underpricing sia l’effetto di un classico lemons problem. Gli investitori richiedono un premio per il rischio di adverse selection che sottoscrivendo le azioni si assumono: maggiore è l’asimmetria informativa percepita, maggiore è il rischio di adverse selection percepito e conseguentemente maggiore è lo sconto sul prezzo richiesto (Allen e Faulhaber, 1989, Welch 1989 e Chemmanur, 1993). Il capitolo 3 prendendo come campione le IPO di PMI realizzate in Italia negli anni 2005-2007 analizza le relazioni esistenti tra l’underpricing e la compagine azionaria post quotazione e tra l’underpricing e la liquidità del titolo durante il primo anno di negoziazione.

Non disponibile

Dai vincoli finanziari agli investimenti in ricerca e sviluppo alla quotazione in borsa: evidenze dalle PMI italiane

CELIA, Patrizia
2008-01-01

Abstract

Non disponibile
2008
vincoli finanziari; quotazione in borsa; pmi italiane
La recente perdita di competitività delle imprese italiane ci spinge a considerare, tra le altre cause, anche l’eventuale presenza di vincoli finanziari agli investimenti e in particolare a quelli in R&S. La realizzazione dei progetti di investimento è strettamente correlata alle risorse finanziarie di cui l’impresa dispone o sarà in grado di disporre attraverso un’adeguata politica di finanziamento volta alla ricerca della composizione migliore della propria struttura finanziaria. La letteratura sulle scelte di struttura finanziaria concorda sul fatto che in presenza di imperfezioni nei mercati dei capitali non esiste perfetta sostituibilità tra le fonti finanziarie interne e quelle esterne. Un’impresa è, allora, sottoposta a vincoli finanziari quando è costretta a rinunciare all’esecuzione di progetti di investimento che, seppur profittevoli, non è in grado di finanziare. Esistono numerose evidenze empiriche che mostrano che alcune imprese sono finanziariamente vincolate quando decidono di effettuare investimenti in capitale fisico (tra gli altri Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) e (1996), Bond e Meghir (1994), Bond, Elston, Mairesse e Mulkay (2003)). Molto meno studiato è il problema degli investimenti in Ricerca e Sviluppo (tra gli altri Harhoff (1998), Bond S., Harhoff D., Van Reenen J. (1999)) sebbene alcune caratteristiche di questi ultimi lascino pensare che è molto più probabile osservare vincoli finanziari agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) piuttosto che agli investimenti in capitale fisico. Nonostante l’importanza del fenomeno, finora le evidenze empiriche sulla presenza di vincoli finanziari agli investimenti delle imprese manifatturiere italiane sono state poche e hanno riguardato prevalentemente gli investimenti in capitale fisico (Rondi e Sembenelli 1998). Non è dunque priva di giustificazioni l’idea di voler testare l’eventuale presenza di vincoli finanziari agli investimenti delle imprese manifatturiere italiane, prestando particolare attenzione al caso delle spese in R&S. Il capitolo 1 propone la stima dei vincoli finanziari agli investimenti in capitale fisico e in ricerca e sviluppo, utilizzando l’approccio maggiormente condiviso in letteratura. È oramai convinzione diffusa che per rilanciare la competitività delle imprese italiane sia necessario partire dal rilancio della crescita dimensionale e di strutture proprietarie meno concentrate, dell’innovazione tecnologica, dell’internazionalizzazione e da un miglior rapporto con il sistema finanziario. La crescita economica non può prescindere, infatti, dal progresso del sistema finanziario in generale e del mercato borsistico in particolare. La letteratura economica ha evidenziato l’esistenza di una solida relazione tra lo sviluppo economico e il progresso del sistema finanziario. Un sistema finanziario evoluto favorisce una crescita robusta e sostenibile del risparmio, favorendo il processo di selezione delle eccellenze imprenditoriali e degli investimenti e offrendo nuove modalità di gestione dei rischi. In una prospettiva ancora più ampia, il sistema finanziario è uno strumento vitale per realizzare un sistema economico e una società più aperti, dinamici ed equi. In particolare, la quotazione in Borsa consente alle imprese il finanziamento di nuovi investimenti, imprime impulso alla crescita dimensionale e riequilibra la struttura finanziaria ottimizzando il costo del finanziamento. Sebbene lo scarso ricorso al finanziamento azionario non sia una prerogativa delle imprese italiane, l’Italia si caratterizza per il fatto di avere un ridotto numero di società domestiche quotate. Per anni il motivo della scarsa partecipazione al mercato azionario delle imprese italiane è stato attribuito alla riluttanza degli imprenditori all’apertura del capitale e alla “condivisione” con il mercato dell’azienda, tipicamente di famiglia. Inoltre la quotazione in borsa veniva vista (e in parte accade tuttora) come un’operazione di finanza straordinaria destinata alle grandi imprese. Il capitolo 2 vuole indagare se il ridotto numero di società italiane quotate dipende da un limitato numero di società quotabili o piuttosto da una eccessiva complessità del mercato azionario italiano. La Initial Public Offering (IPO) rappresenta uno dei passi più importanti nella vita di un’impresa non solo per il fatto che le somme ottenute consentono il finanziamento di importanti progetti di investimento che possono determinare un vero e proprio salto dimensionale e culturale, ma anche per le importanti conseguenze gestionali. Oltre alle accortezze a tutela delle minoranze, una delle conseguenze di maggiore impatto nella vita aziendale e, per un certo verso, persino nella vita dell’imprenditore stesso è la gestione del cambio dell’azionariato conseguente al collocamento delle azioni. Nel vendere le azioni della propria società, l’imprenditore potrebbe dunque poter accettare un prezzo più basso rispetto al fair value, pur di riuscire ad evitare che nella compagine azionaria vi siano degli investitori sgraditi, o relativamente sgraditi. Una parte degli accademici che studiano il fenomeno delle IPO, si interroga sulla possibilità da parte dell’emittente di poter plasmare la composizione dell’azionariato post-IPO e, in particolare, alcuni articoli hanno cercato di indagare il ruolo dell’underpricing nel raggiungimento della compagine azionaria desiderata. L’underpricing è solitamente spiegato in letteratura come fenomeno derivante dall’asimmetria informativa esistente tra l’emittente e gli investitori in merito al valore dell’azienda e al rischio intrinseco aziendale. Tali teorie assumono che l’emittente possiede un set informativo più completo rispetto a quello posseduto dagli investitori e che pertanto l’underpricing sia l’effetto di un classico lemons problem. Gli investitori richiedono un premio per il rischio di adverse selection che sottoscrivendo le azioni si assumono: maggiore è l’asimmetria informativa percepita, maggiore è il rischio di adverse selection percepito e conseguentemente maggiore è lo sconto sul prezzo richiesto (Allen e Faulhaber, 1989, Welch 1989 e Chemmanur, 1993). Il capitolo 3 prendendo come campione le IPO di PMI realizzate in Italia negli anni 2005-2007 analizza le relazioni esistenti tra l’underpricing e la compagine azionaria post quotazione e tra l’underpricing e la liquidità del titolo durante il primo anno di negoziazione.
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