Il prologo del volume è la chiave di lettura dell'intero libro. Il racconto di Jorge Luis Borges, intitolato "L'etnografo", racconta di un etnografo statunitense che, su consiglio del suo anziano professore d'università, va a vivere in una riserva indiana. Deve osservare certi riti esoterici, ma soprattutto scoprirne il segreto che i sacerdoti rivelano agli iniziati. Al ritorno pubblicherà il resoconto sulla rivista dell'Istituto. Per inciso, è ciò che sogna la maggior parte dei dottorandi: pubblicare la propria tesi e iniziare un cursus honorum coronato di successi che ripaghino delle fatiche sul "campo". Fred Murdock vive per oltre due anni con gli Indiani: "Assuefece il palato a sapori aspri, si coprì con vesti strane, dimenticò gli amici e la città, giunse a pensare in un modo che la sua logica respingeva". Sognava persino nella lingua dei nativi americani che si era recato a studiare. L'etnografo venne iniziato dal sacerdote ai riti esoterici per i quali si era recato nella riserva. Una mattina torna a Yale, si reca nello studio del professore, gli comunica che conosce il segreto ma ha deciso di non rivelarlo. "La lega un giuramento?" domanda il professore, e gli pone diverse domande per capire il motivo per cui non desideri rivelare il segreto appreso dagli Indiani. La risposta di Murdock è complessa: "Ho imparato qualcosa che non posso dire (…) potrei enunciarlo in cento modi diversi ed anche contraddittori (…) il segreto vale meno delle vie che mi hanno condotto ad esso. Quelle vie bisogna percorrerle". Il professore gli domanda se desideri tornare a vivere dagli Indiani, ma la risposta è "No. Ciò che mi hanno insegnato i suoi uomini vale per qualunque luogo e per qualunque circostanza (…) Tale fu in essenza il dialogo. Fred si sposò, divorziò ed ora è uno dei bibliotecari di Yale". Questo è il tipo di etnografia perfetta. L'etnografo di Borges, racconta Piasere nell'Epilogo, "non è l'anti-etnografo e neppure l'etnografo mancato, è l'etnografo perfetto. L'etnografo che si è talmente impregnato di cultura altrui da non avere nessuna interpretazione da proporne (…) Più si impregnava dei suoi 'indiani', meno aveva da dirne. L'etnografo che scrive è l'etnografo incompleto, che per colmare le sue lacune (allora interpretate come conoscenze) ha bisogno di fare interpretazioni e di proporle ai suoi lettori e, se mira in alto, ha bisogno di cercare la gloria, che è una forma di incomprensione, forse la peggiore, diceva Borges" (p. 188). La perduzione totale nel processo etnografico diviene una perdizione riguardo al prodotto etnografico, che si scioglie in autismo. "Solo colui al quale fa difetto la perfezione dell'esperimento di esperienza vissuta la intacca mettendosi a narrarlo" (ibid.). Si potrebbe leggere soltanto il racconto iniziale e l'epilogo del volume di Piasere per imparare qualcosa d'importante che riguarda l'etica della ricerca e l'empatia tra lo studioso o lo studente e gli studiati. Il volume merita però di essere letto integralmente, per scoprire pagina dopo pagina, come in un Bildungsroman, la ragione per cui un etnografo che va sul campo non sta conducendo un esperimento scientifico sui locali, ma un esperimento di esperienza su se stesso, a contatto con gli altri. In fondo, oggi la domanda che forse ci si pone di fronte alle etnografie è: "Che cosa sappiamo della conoscenza della conoscenza antropologica?". Non molto. E questo libro di tale conoscenza ne esplora i complessi meandri cognitivi. Sin dal primo capitolo, Piasere sostiene che non si fanno esperimenti in antropologia, o meglio non nel senso dato dalle 'scienze esatte' al termine esperimento. Eppure, da subito viene correlato l'esperimento nelle scienze della natura e la ricerca sul campo in antropologia. Ancor di più, la scuola boasiana vede il terreno come laboratorio a cielo aperto e negli anni Settanta si pubblica un noto manuale intitolato Il laboratorio dell'etnologo. Tuttavia, negli stessi anni nasce la corrente che Piasere definisce 'testualismo antropologico', ove l'attenzione è spostata dall'esperimento al testo, dal processo al prodotto: "Gli strumenti d'analisi non sono più ricercati tra i teorici della scienza (…) ma in quelli della retorica, della stilistica e della critica letteraria. L'enunciato eponimo del movimento è forse la famosa frase di un lavoro del 1973 di Geertz: 'Che cosa fa l'etnografo? Scrive'" (p. 14). Appartengono agli anni Ottanta il celebre Writing Culture curato da Clifford e Marcus (risultato di un seminario a Santa Fe) e il volume Anthropology as a Cultural Critique edito da Marcus e Fischer. Nei volumi si metteva in luce la crisi delle scienze sociali e in particolare della rappresentazione: il metodo etnografico aveva contribuito a costruire una critica culturale dell'Occidente, nata confrontandosi con popoli altri, tribali e non occidentali. Per questo motivo, Marcus e Fischer preferivano dedicarsi in modo particolare a uno soltanto dei due procedimenti della ricerca etnografica: il prodotto scritto. Secondo Piasere, "quello che ne risulta è una sorta di occidentalistica di riflesso, di studio dell'Occidente attraverso l'analisi resa testuale degli etnografi" (p. 15). La domanda di Piasere è semplice: non si rischia di svalutare il contenuto a vantaggio della forma? Qui aleggia la critica al testualismo di Clifford, così come ad altri rappresentanti del postmoderno, tra cui Stephen Tyler. All'etnografo spetta, secondo l'Autore, una rigorosa invenzione dei fatti, pur ammettendo un'elevata interazione tra immaginazione e realtà. Clifford invece sembra sommare coscientemente i diversi significati di finzione (anche giocando con il termine fiction), per cui un'etnografia risulta "una vera e propria costruzione finta con-elementi-di-falsità, da cui l'esperienza etnografica viene sistematicamente censurata, se non apertamente derisa" (p. 17). Dalla metafora della cultura come testo o dialogo deriva la difficoltà di rendere conto, nei testi etnografici, della rete di significati indigeni, combinandoli con le esigenze della costruzione del testo operata attraverso le regole stilistiche condivise culturalmente dall'autore e dai destinatari dell'opera. Poiché le scritture socio-scientifiche tradizionali vengono ritenute inadeguate, sperimentare diventa un'esigenza. Del resto, Mary Luise Pratt aveva già detto che "la scrittura etnografica tende ad essere sorprendentemente noiosa. Come mai persone tanto interessanti, che fanno cose tanto interessanti, scrivono libri tanto noiosi?" (PRATT 1997: 60). Un esempio illuminante e paradossale citato da Tzvetan Todorov proviene dalla Descrizione dell'isola di Formosa in Asia edita a Londra nel 1704 da George Psalmanazar: al pari di un etnografo che svolge la sua ricerca in un luogo remoto e poco conosciuto, questi descrive usi e costumi di un luogo allora poco noto, riportando persino un alfabeto locale e la notizia di pratiche di cannibalismo. Il libro diventa un bestseller e un caso scientifico. In breve, solo nel 1747 Psalmanazar ammetterà che la sua descrizione è favolosa (fabulous). Todorov riporta un secondo esempio: l'America si chiama così non perché sia stato per primo Amerigo Vespucci a darne notizia, in quanto ne fa menzione solo nel 1503, ma perché l'ha scritta meglio di Pietro Martire d'Anghiera, che fin dal 1494 parla di "orbe novo", e dello stesso Cristoforo Colombo, che nel 1497 parla finalmente di una terra "di cui prima non si aveva conoscenza". Vespucci scrive meglio e la qualità letteraria, non scientifica, vince. E mentre Psalmanazar cade nel dimenticatoio, perché ha costruito un falso, Vespucci dà nome a un continente, perché ha avuto talento letterario. "Così il problema che i testualisti dell'etnografia non tirano mai fuori è quello del talento letterario degli autori e può capitare che occultino il problema esibendo un proprio grande talento. Che facciamo di quell'etnografo che abbia talento al 'primo stadio' (la ricerca, N.d.R.) e sia poi negato nel 'secondo'?" (p. 24). In realtà, gli antropologi, anche se hanno cercato di fare esperimenti-sperimentazioni, in quanto etnografi hanno fatto esperienza degli altri sul campo: "È allora scopo di questo libro parlare del processo d'interpretazione etnografica come di un particolare tipo di esperimento: un esperimento di esperienza" (p. 27). Un altro punto di partenza di Piasere consiste nell'applicare all'antropologia la definizione del filosofo Ernst Mach dell'esperimento come 'estensione intenzionale dell'esperienza', per cui nel lavoro etnografico è l'osservatore stesso, e non le persone osservate o i fatti, a operare un'estensione intenzionale dell'esperienza. Ciò che caratterizza la ricerca dell'etnografo è la 'curvatura dell'esperienza': egli curva il proprio spazio-tempo, la propria vita, per co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata normale. Il viaggio è un classico esempio di curvatura, un topos riscontrabile in tutti i resoconti etnografici. Non è il viaggio in sé ad essere ponderoso, ma lo sradicamento esperenziale dalla vita quotidiana: "L'etnografo si stacca da un ambiente e dalla sua rete personale di interazione quotidiana, per andare in un altro ambiente in cui costruire una nuova rete personale di interazione quotidiana" (p. 45). È grazie alla perduzione che l'antropologo fa un'esperienza etnografica. Piasere la definisce un'acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperenziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente interiorizzati, attraverso accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti tramite un'interazione continuata: semplificando, ciò significa comprendere "attraverso una frequentazione" (p. 56). L'etnografia come curvatura dell'esperienza presuppone un 'attraversamento' che rimanda allo sradicamento e allo stare tra altra gente, una macerazione lenta delle modalità di acquisizione consce e inconsce ed una 'trasversalità' nel senso di "ideazione di connessioni interculturali" (REMOTTI 1990: 169). In questo caso, il prefisso 'per' del termine perduzione rimanda a questi aspetti appena accennati e ad altri che costituiscono altrettante difficoltà dell'apprendimento per curvatura della propria esperienza (cfr. p. 57). La perduzione, sostiene Piasere, è un concetto fuzzy: non un tipo di ragionamento analitico, ma una conoscenza ottenuta attraverso la risonanza pregnante, lo scandagliamento cognitivo in situazioni esperenziali non quotidiane e familiari (cfr. p. 164). La serendipità, l'imbattersi in cose importanti senza cercarle, è una caratteristica dell'osservazione partecipante. I momenti inattesi, inaspettati accadono spesso nella vita di un etnografo e costituiscono quello che Michael Agar chiama 'punti ricchi': "Quando capita un punto ricco, un etnografo impara che le sue assunzioni su come va il mondo, di solito implicite e inconsapevoli, sono inadeguate a capire quel che è successo" (AGAR 1996: 31). Attraverso uno schema che comprende schemi (frame), 'punti ricchi' e 'strisce di esperienza', ossia la micro-esperienza dell'osservazione partecipante, Agar tratteggia il processo della comprensione etnografica: una continua modificazione degli schemi attraverso il reperimento di punti ricchi in strisce d'esperienza. La visione olistica della cultura avviene perciò attraverso un assemblaggio per via abduttiva di frammenti di cultura e ciò richiede tempo. Infatti, il lavoro dell'etnografo è basato sull'indugio, sulla capacità di sospendere la propria incredulità o, se si vuole, di sforzarsi di ridere come i propri interlocutori, non tanto per creare ponti di analogie tra sé e gli altri, quanto per imparare le analogie degli altri: "Solo indugiando, e molto, ci si impregna empatizzando analogie altrui" (p. 184). Indice Torna all'inizio Prologo. L'etnografo di Jorge Luis Borges - I. Degli esperimenti in antropologia - II. La curvatura dell'esperienza - III. Mucchi indecisi, ponti degli asini, menti incarnate - IV. La guerra delle metafore - V. Connessioni e flussi: il modello distributivo - VI. La perduzione - VII. Narrazioni e illuminazioni - Epilogo. L'etnografo di Jorge Luis Borges - Bibliografia - Indice dei nomi

L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia

PIASERE, Leonardo
2007-01-01

Abstract

Il prologo del volume è la chiave di lettura dell'intero libro. Il racconto di Jorge Luis Borges, intitolato "L'etnografo", racconta di un etnografo statunitense che, su consiglio del suo anziano professore d'università, va a vivere in una riserva indiana. Deve osservare certi riti esoterici, ma soprattutto scoprirne il segreto che i sacerdoti rivelano agli iniziati. Al ritorno pubblicherà il resoconto sulla rivista dell'Istituto. Per inciso, è ciò che sogna la maggior parte dei dottorandi: pubblicare la propria tesi e iniziare un cursus honorum coronato di successi che ripaghino delle fatiche sul "campo". Fred Murdock vive per oltre due anni con gli Indiani: "Assuefece il palato a sapori aspri, si coprì con vesti strane, dimenticò gli amici e la città, giunse a pensare in un modo che la sua logica respingeva". Sognava persino nella lingua dei nativi americani che si era recato a studiare. L'etnografo venne iniziato dal sacerdote ai riti esoterici per i quali si era recato nella riserva. Una mattina torna a Yale, si reca nello studio del professore, gli comunica che conosce il segreto ma ha deciso di non rivelarlo. "La lega un giuramento?" domanda il professore, e gli pone diverse domande per capire il motivo per cui non desideri rivelare il segreto appreso dagli Indiani. La risposta di Murdock è complessa: "Ho imparato qualcosa che non posso dire (…) potrei enunciarlo in cento modi diversi ed anche contraddittori (…) il segreto vale meno delle vie che mi hanno condotto ad esso. Quelle vie bisogna percorrerle". Il professore gli domanda se desideri tornare a vivere dagli Indiani, ma la risposta è "No. Ciò che mi hanno insegnato i suoi uomini vale per qualunque luogo e per qualunque circostanza (…) Tale fu in essenza il dialogo. Fred si sposò, divorziò ed ora è uno dei bibliotecari di Yale". Questo è il tipo di etnografia perfetta. L'etnografo di Borges, racconta Piasere nell'Epilogo, "non è l'anti-etnografo e neppure l'etnografo mancato, è l'etnografo perfetto. L'etnografo che si è talmente impregnato di cultura altrui da non avere nessuna interpretazione da proporne (…) Più si impregnava dei suoi 'indiani', meno aveva da dirne. L'etnografo che scrive è l'etnografo incompleto, che per colmare le sue lacune (allora interpretate come conoscenze) ha bisogno di fare interpretazioni e di proporle ai suoi lettori e, se mira in alto, ha bisogno di cercare la gloria, che è una forma di incomprensione, forse la peggiore, diceva Borges" (p. 188). La perduzione totale nel processo etnografico diviene una perdizione riguardo al prodotto etnografico, che si scioglie in autismo. "Solo colui al quale fa difetto la perfezione dell'esperimento di esperienza vissuta la intacca mettendosi a narrarlo" (ibid.). Si potrebbe leggere soltanto il racconto iniziale e l'epilogo del volume di Piasere per imparare qualcosa d'importante che riguarda l'etica della ricerca e l'empatia tra lo studioso o lo studente e gli studiati. Il volume merita però di essere letto integralmente, per scoprire pagina dopo pagina, come in un Bildungsroman, la ragione per cui un etnografo che va sul campo non sta conducendo un esperimento scientifico sui locali, ma un esperimento di esperienza su se stesso, a contatto con gli altri. In fondo, oggi la domanda che forse ci si pone di fronte alle etnografie è: "Che cosa sappiamo della conoscenza della conoscenza antropologica?". Non molto. E questo libro di tale conoscenza ne esplora i complessi meandri cognitivi. Sin dal primo capitolo, Piasere sostiene che non si fanno esperimenti in antropologia, o meglio non nel senso dato dalle 'scienze esatte' al termine esperimento. Eppure, da subito viene correlato l'esperimento nelle scienze della natura e la ricerca sul campo in antropologia. Ancor di più, la scuola boasiana vede il terreno come laboratorio a cielo aperto e negli anni Settanta si pubblica un noto manuale intitolato Il laboratorio dell'etnologo. Tuttavia, negli stessi anni nasce la corrente che Piasere definisce 'testualismo antropologico', ove l'attenzione è spostata dall'esperimento al testo, dal processo al prodotto: "Gli strumenti d'analisi non sono più ricercati tra i teorici della scienza (…) ma in quelli della retorica, della stilistica e della critica letteraria. L'enunciato eponimo del movimento è forse la famosa frase di un lavoro del 1973 di Geertz: 'Che cosa fa l'etnografo? Scrive'" (p. 14). Appartengono agli anni Ottanta il celebre Writing Culture curato da Clifford e Marcus (risultato di un seminario a Santa Fe) e il volume Anthropology as a Cultural Critique edito da Marcus e Fischer. Nei volumi si metteva in luce la crisi delle scienze sociali e in particolare della rappresentazione: il metodo etnografico aveva contribuito a costruire una critica culturale dell'Occidente, nata confrontandosi con popoli altri, tribali e non occidentali. Per questo motivo, Marcus e Fischer preferivano dedicarsi in modo particolare a uno soltanto dei due procedimenti della ricerca etnografica: il prodotto scritto. Secondo Piasere, "quello che ne risulta è una sorta di occidentalistica di riflesso, di studio dell'Occidente attraverso l'analisi resa testuale degli etnografi" (p. 15). La domanda di Piasere è semplice: non si rischia di svalutare il contenuto a vantaggio della forma? Qui aleggia la critica al testualismo di Clifford, così come ad altri rappresentanti del postmoderno, tra cui Stephen Tyler. All'etnografo spetta, secondo l'Autore, una rigorosa invenzione dei fatti, pur ammettendo un'elevata interazione tra immaginazione e realtà. Clifford invece sembra sommare coscientemente i diversi significati di finzione (anche giocando con il termine fiction), per cui un'etnografia risulta "una vera e propria costruzione finta con-elementi-di-falsità, da cui l'esperienza etnografica viene sistematicamente censurata, se non apertamente derisa" (p. 17). Dalla metafora della cultura come testo o dialogo deriva la difficoltà di rendere conto, nei testi etnografici, della rete di significati indigeni, combinandoli con le esigenze della costruzione del testo operata attraverso le regole stilistiche condivise culturalmente dall'autore e dai destinatari dell'opera. Poiché le scritture socio-scientifiche tradizionali vengono ritenute inadeguate, sperimentare diventa un'esigenza. Del resto, Mary Luise Pratt aveva già detto che "la scrittura etnografica tende ad essere sorprendentemente noiosa. Come mai persone tanto interessanti, che fanno cose tanto interessanti, scrivono libri tanto noiosi?" (PRATT 1997: 60). Un esempio illuminante e paradossale citato da Tzvetan Todorov proviene dalla Descrizione dell'isola di Formosa in Asia edita a Londra nel 1704 da George Psalmanazar: al pari di un etnografo che svolge la sua ricerca in un luogo remoto e poco conosciuto, questi descrive usi e costumi di un luogo allora poco noto, riportando persino un alfabeto locale e la notizia di pratiche di cannibalismo. Il libro diventa un bestseller e un caso scientifico. In breve, solo nel 1747 Psalmanazar ammetterà che la sua descrizione è favolosa (fabulous). Todorov riporta un secondo esempio: l'America si chiama così non perché sia stato per primo Amerigo Vespucci a darne notizia, in quanto ne fa menzione solo nel 1503, ma perché l'ha scritta meglio di Pietro Martire d'Anghiera, che fin dal 1494 parla di "orbe novo", e dello stesso Cristoforo Colombo, che nel 1497 parla finalmente di una terra "di cui prima non si aveva conoscenza". Vespucci scrive meglio e la qualità letteraria, non scientifica, vince. E mentre Psalmanazar cade nel dimenticatoio, perché ha costruito un falso, Vespucci dà nome a un continente, perché ha avuto talento letterario. "Così il problema che i testualisti dell'etnografia non tirano mai fuori è quello del talento letterario degli autori e può capitare che occultino il problema esibendo un proprio grande talento. Che facciamo di quell'etnografo che abbia talento al 'primo stadio' (la ricerca, N.d.R.) e sia poi negato nel 'secondo'?" (p. 24). In realtà, gli antropologi, anche se hanno cercato di fare esperimenti-sperimentazioni, in quanto etnografi hanno fatto esperienza degli altri sul campo: "È allora scopo di questo libro parlare del processo d'interpretazione etnografica come di un particolare tipo di esperimento: un esperimento di esperienza" (p. 27). Un altro punto di partenza di Piasere consiste nell'applicare all'antropologia la definizione del filosofo Ernst Mach dell'esperimento come 'estensione intenzionale dell'esperienza', per cui nel lavoro etnografico è l'osservatore stesso, e non le persone osservate o i fatti, a operare un'estensione intenzionale dell'esperienza. Ciò che caratterizza la ricerca dell'etnografo è la 'curvatura dell'esperienza': egli curva il proprio spazio-tempo, la propria vita, per co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata normale. Il viaggio è un classico esempio di curvatura, un topos riscontrabile in tutti i resoconti etnografici. Non è il viaggio in sé ad essere ponderoso, ma lo sradicamento esperenziale dalla vita quotidiana: "L'etnografo si stacca da un ambiente e dalla sua rete personale di interazione quotidiana, per andare in un altro ambiente in cui costruire una nuova rete personale di interazione quotidiana" (p. 45). È grazie alla perduzione che l'antropologo fa un'esperienza etnografica. Piasere la definisce un'acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperenziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente interiorizzati, attraverso accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti tramite un'interazione continuata: semplificando, ciò significa comprendere "attraverso una frequentazione" (p. 56). L'etnografia come curvatura dell'esperienza presuppone un 'attraversamento' che rimanda allo sradicamento e allo stare tra altra gente, una macerazione lenta delle modalità di acquisizione consce e inconsce ed una 'trasversalità' nel senso di "ideazione di connessioni interculturali" (REMOTTI 1990: 169). In questo caso, il prefisso 'per' del termine perduzione rimanda a questi aspetti appena accennati e ad altri che costituiscono altrettante difficoltà dell'apprendimento per curvatura della propria esperienza (cfr. p. 57). La perduzione, sostiene Piasere, è un concetto fuzzy: non un tipo di ragionamento analitico, ma una conoscenza ottenuta attraverso la risonanza pregnante, lo scandagliamento cognitivo in situazioni esperenziali non quotidiane e familiari (cfr. p. 164). La serendipità, l'imbattersi in cose importanti senza cercarle, è una caratteristica dell'osservazione partecipante. I momenti inattesi, inaspettati accadono spesso nella vita di un etnografo e costituiscono quello che Michael Agar chiama 'punti ricchi': "Quando capita un punto ricco, un etnografo impara che le sue assunzioni su come va il mondo, di solito implicite e inconsapevoli, sono inadeguate a capire quel che è successo" (AGAR 1996: 31). Attraverso uno schema che comprende schemi (frame), 'punti ricchi' e 'strisce di esperienza', ossia la micro-esperienza dell'osservazione partecipante, Agar tratteggia il processo della comprensione etnografica: una continua modificazione degli schemi attraverso il reperimento di punti ricchi in strisce d'esperienza. La visione olistica della cultura avviene perciò attraverso un assemblaggio per via abduttiva di frammenti di cultura e ciò richiede tempo. Infatti, il lavoro dell'etnografo è basato sull'indugio, sulla capacità di sospendere la propria incredulità o, se si vuole, di sforzarsi di ridere come i propri interlocutori, non tanto per creare ponti di analogie tra sé e gli altri, quanto per imparare le analogie degli altri: "Solo indugiando, e molto, ci si impregna empatizzando analogie altrui" (p. 184). Indice Torna all'inizio Prologo. L'etnografo di Jorge Luis Borges - I. Degli esperimenti in antropologia - II. La curvatura dell'esperienza - III. Mucchi indecisi, ponti degli asini, menti incarnate - IV. La guerra delle metafore - V. Connessioni e flussi: il modello distributivo - VI. La perduzione - VII. Narrazioni e illuminazioni - Epilogo. L'etnografo di Jorge Luis Borges - Bibliografia - Indice dei nomi
2007
9788842066552
Antropologia; epistemologia ed ermeneutica etnografica; cognizione
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11562/318835
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