È ormai prassi acquisita leggere nello sguardo autoriflessivo di Amleto uno degli esempi più significativi della metateatralità elisabettiana. Il famoso play within the play lì contenuto non a caso al suo centro strutturale, il terzo atto, mette in scena il topos del teatro come specchio del mondo, fungendo da momento risolutorio di un’impasse epistemologica: fino a che punto è dato conoscere la verità all’interno di un cosmo simbolico infranto, in cui essere e apparire non coincidono più e dove domina la parola contraffattrice del villain, usurpatore del regno? La questione dell’azione drammatica, la vendetta, soggiace così alla risoluzione di un problema di fondo, quello della possibilità della conoscenza in un mondo in cui l’agnizione non sembra più essere una categoria fondante. Amleto è un malinconico; o meglio, il principe dei malinconici, ed è proprio a questa malattia epocale che egli si appellerà nel secondo atto per trovare una giustificazione alla propria paralisi, coniugando umore atrabiliare e metateatro, cifre del sistema culturale elisabettiano. Ma è sufficiente rendere conto di queste due categorie per risolvere alcuni dei nodi del testo? Per primo, la scena di Ecuba, in cui il metateatro slitta impercettibilmente nella direzione del metanarrativo; poi, la circolarità strutturale del testo, che si apre su un racconto, quello dello Spettro, e si chiude su un altro racconto, quello di Orazio; infine, la rilevanza della funzione narrativa, spesso ridondante al punto da trasformarsi in un tassello tematico simbolicamente contrapposto alla rappresentazione, capace di rallentare a tratti l’azione drammatica. In che misura, dunque, narrazione e rappresentazione interagiscono nel modellare un testo drammatico assolutamente atipico, il prototipo della tragedia moderna paralizzata nei dubbi del suo eroe?

Oltre il genere. Amleto tra scena e racconto.

BIGLIAZZI, Silvia
2001-01-01

Abstract

È ormai prassi acquisita leggere nello sguardo autoriflessivo di Amleto uno degli esempi più significativi della metateatralità elisabettiana. Il famoso play within the play lì contenuto non a caso al suo centro strutturale, il terzo atto, mette in scena il topos del teatro come specchio del mondo, fungendo da momento risolutorio di un’impasse epistemologica: fino a che punto è dato conoscere la verità all’interno di un cosmo simbolico infranto, in cui essere e apparire non coincidono più e dove domina la parola contraffattrice del villain, usurpatore del regno? La questione dell’azione drammatica, la vendetta, soggiace così alla risoluzione di un problema di fondo, quello della possibilità della conoscenza in un mondo in cui l’agnizione non sembra più essere una categoria fondante. Amleto è un malinconico; o meglio, il principe dei malinconici, ed è proprio a questa malattia epocale che egli si appellerà nel secondo atto per trovare una giustificazione alla propria paralisi, coniugando umore atrabiliare e metateatro, cifre del sistema culturale elisabettiano. Ma è sufficiente rendere conto di queste due categorie per risolvere alcuni dei nodi del testo? Per primo, la scena di Ecuba, in cui il metateatro slitta impercettibilmente nella direzione del metanarrativo; poi, la circolarità strutturale del testo, che si apre su un racconto, quello dello Spettro, e si chiude su un altro racconto, quello di Orazio; infine, la rilevanza della funzione narrativa, spesso ridondante al punto da trasformarsi in un tassello tematico simbolicamente contrapposto alla rappresentazione, capace di rallentare a tratti l’azione drammatica. In che misura, dunque, narrazione e rappresentazione interagiscono nel modellare un testo drammatico assolutamente atipico, il prototipo della tragedia moderna paralizzata nei dubbi del suo eroe?
2001
8876945814
William Shakespeare; Amleto; Letteratura inglese
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